Rick Rubin racconta il suo amore per la Toscana e l’incontro con Jovanotti
A colloquio con il produttore musicale più importante degli ultimi 30 anni
In mezzo alla nuvola bianca e vaporosa dei capelli lunghi, morbidi e fini e della barba che gli copre il petto due incredibili laghi alpini ti inchiodano, calmi e penetranti, e non te li scordi più. È l’effetto Rick Rubin, mito vivente della musica. Produttore a metà fra il guru e l’imprenditore, un esemplare umano inconsueto per l’Italia che con la California, dove Rubin vive ormai da anni, ha in comune il clima, il vino e le colline ma non quell’understatement.
Si accovaccia sul divano del Jk Place Firenze sorseggiando un caffè speziato che Claudio Meli, GM e suo angelo custode toscano, gli ha fatto preparare, e a piedi scalzi si mette a parlare come se fosse l’amico grande delle superiori che non vedi da anni: sa tutto di te e ti ascolta. Questo è Rick Rubin, che sugli artisti lavora come uno psicanalista, cercando i punti deboli da evitare e i forti su cui fare leva, con fiuto allucinante, maniacale attenzione ai dettagli e una capacità persuasiva da leggenda.
E’ l’uomo che nei primi anni Ottanta ha intuito le potenzialità del rap e prodotto i Beastie Boys, Public Enemy e i Run-DMC, ha lavorato con artisti di ogni genere: Black Sabbath, Metallica, AC/DC, Aerosmith, Mick Jagger, Sheryl Crow, Adele, Kanye West, Justin Biber e molti altri. I Red Hot Chili Peppers è la band con cui ha collaborato più a lungo in assoluto, ma resta scolpita nella pietra la sua collaborazione con Johnny Cash negli anni Novanta per la serie di album American Recordings, che resuscitò la carriera dell’epico countryman. Ad oggi, l’unico artista italiano benedetto dal suo karma è Lorenzo Jovanotti, di cui ha prodotto proprio l’ultimo album Oh Vita! registrato un anno fa in una villa alle porte di Firenze.
è stato allora che ti sei arreso al fascino della Toscana?
Eravamo a Villa Le Rose, tutte le mattine uscivo e andavo in giro nella campagna intorno a Siena, un’avventura divertente che mi ha fatto incontrare il mio buen retiro.
Ricordi la tua prima volta in Italia?
Mah, fammi pensare, dodici anni fa, più o meno. Ero venuto a trovare degli amici, giravo per la costiera amalfitana, poi Capri. Non avevo mai avvertito una connessione con l’Europa prima d’allora, ero stato a Londra, Parigi che mi piaceva un po’ più di Londra, ma non volevo starci comunque… Roma poi, mi è piaciuta molto, ma troppo grande, affollata e trafficata.
E a Firenze?
Sette anni fa, il momento in cui mi sono detto: “Oh, ho trovato la mia casa”, questo posto è casa. All’inizio, il piano era di stare a casa dello stilista Ermanno Scervino per un mese, ma dopo qualche giorno lì, senza macchina e con molto tempo a disposizione perché il lavoro che facevo era a piccole dosi, ho pensato: “Sarà meglio stare in città invece di andarci solo per lavorare, così posso conoscere meglio Firenze”. E allora sono entrato in questo piccolo boutique hotel per la prima volta.
Quando vieni a Firenze che cosa ti attira?
Mi piacciono i manufatti: l’artigianato, le stoffe, i colori, lo stile, cose difficili da trovare negli USA. Amo i dettagli e il gusto, che poi, se ci pensi bene, sono collegati.
Tra le canzoni italiane, qual è la tua preferita?
Volare di Domenico Modugno. Adoro le melodie italiane.
Dove hai conosciuto Lorenzo?
In Sicilia, al Google Event. Non ero stato neanche invitato, ci sono andato con un amico. Parlavano persone brillanti che cambiano il mondo. Il primo fu Lorenzo Jovanotti. Non lo conoscevo ma grazie a quell’incontro siamo diventati amici. Due anni dopo, è venuto negli Stati Uniti a suonare le sue nuove canzoni per me. Gli ho detto che quella musica non era buona, ci volevano due anni per farla funzionare, e così è stato. Lorenzo ha una grande anima. Sono orgoglioso di averlo conosciuto, ha reso la mia vita migliore.
Pensi mai a ciò che vuole il pubblico?
Mai, nella mia decisione artistica, il pubblico viene ultimo. Faccio del mio meglio e spero. Non so leggere la mente di nessuno. Quando creo qualcosa, spero che piaccia alla gente, ma non cambio niente solo per compiacere il pubblico, quel tipo di musica funzionerebbero solo per una stagione.
La tua migliore qualità sul lavoro?
Ascolto molto gli artisti e non mi impongo su di loro. Voglio tirare fuori il meglio da loro.
E la tua qualità peggiore?
A volte mi capita di sentirmi giù, di cattivo umore. In quei momenti se un artista vuole farmi sentire delle nuove canzoni, posso non essere lucido e devo stare attento per fare il mio lavoro al meglio.
C’è qualcuno che ha veramente cambiato la tua vita?
Un dottore che mi consigliò di fare meditazione quando avevo 14 anni. La meditazione è ciò che ha più influenzato la mia vita. E’ stata come una lente d’ingrandimento per vedere, sentire e ascoltare ciò che gli altri non vedevano, sentivano o ascoltavano. Tutto nella mia vita mi è capitato per caso. Sono entrato in contatto con il rap alla New York University. Sono venuto a Firenze per lavoro e mi sono innamorato di questa città. Le situazioni mi mostrano la direzione verso cui andare e io vado… non mi serve il controllo della situazione, è come “cavalcare l’onda”.
Sei è una leggenda vivente della musica. Come si fa ad avere così tanto successo e tenere i piedi per terra?
Il mio lavoro è devozione, una pratica spirituale, un’offerta a Dio. Dobbiamo fare del nostro meglio. Gli interessi commerciali non contano. Quando ero giovane, non ho mai pensato che la musica potesse essere il mio lavoro.
Credo in me stesso, senza aspettarmi niente in particolare. Qualunque cosa succeda “dentro di me”, è ciò mi permette di fare il mio lavoro.