2020. L'anno di Raffaello a Firenze
Antonio Natali ci racconta il grande artista nelle dispute fiorentine sulla "maniera"
In occasione di Raffaello, la più grande retrospettiva sull'artista alle Scuderie del Quirinale di Roma, realizzata in collaborazione con gli Uffizi, visibile online sul sito e sui canali social del museo grazie a un dettagliato
Con oltre duecento capolavori tra dipinti, disegni ed opere di confronto presenti a Roma, si culminano le celebrazioni per l'artista a livello mondiale per il cinquecentenario della sua morte, avvenuta a Roma il 6 aprile 1520 all'età di appena 37 anni.
Ma quanto ha davvero influito Firenze sull'arte di Raffaello?
La breve vicenda terrena di Raffaello, principiata nella grazia d’Urbino, si chiude con l’apoteosi romana. Per darsi ragione dello scarto linguistico fra la soavità degli esordi e il piglio eroico delle opere dipinte nell’Urbe si dovrà riflettere sul suo soggiorno fiorentino fra il 1504 e il 1508; che sono proprio gli anni centrali della stagione in cui Firenze davvero rifulse come una nuova Atene. Bisognerà ripensare a cosa fosse la città nel primo decennio del Cinquecento, nell’età della Repubblica di Pier Soderini (1502-1512), quando appunto il giovane Raffaello si muoveva per le sue strade, e in contemporanea vi s’aggiravano Leonardo e Michelangelo. Per dire soltanto dei più noti.
Ma per avere una nozione più perspicua di quale tenore fosse allora il contesto dell’arte a Firenze, subito converrà rammentare che nel gennaio di quello stesso 1504, allorché il Sanzio vi giunge, s’era svolto un convegno, ricco dei maggiori artefici, dal quale avrebbe dovuto sortire un parere autorevole riguardo alla collocazione pubblica del David michelangiolesco (da poco portato a perfezione).
L’elenco dei convocati mozza il fiato. Ma i nomi da soli, per quanto illustri, non bastano a dare la misura del clima in cui gli artisti – “terrazzani e forestieri”, direbbe Vasari – si trovarono a vivere e operare a Firenze. Dico forestieri perché la città era meta ambìta anche da lontano, sia per i maestri rinomati del Trecento e del Quattrocento che vi avevano fatto scuola, sia per quello che il neonato e ambizioso governo repubblicano lasciava sperare quanto a mecenatismo. E poi Firenze era la terra di un umanesimo fra i più nobili del Quattrocento, con gli artefici che aveva prodotto e ancora generava: da Brunelleschi, Masaccio, Donatello a Pollaiolo, Verrocchio, Botticelli, Leonardo.
Raffaello stesso arriva a Firenze non solo in cerca di commissioni (che alla fine saranno per lo più di peso lieve), ma anche per capire cosa vi maturasse e per crescere sul nuovo che c’era. A distanza di cinque secoli potrà anche sembrare che l’insegnamento di Masaccio nella cappella Brancacci abbia potuto avere un’influenza limitata su un giovane come Raffaello, quasi cent’anni dopo. Ma Vasari, che per il Cinquecento è teste affidabile, non lascia campo a dubbi circa il valore formativo degli affreschi di Masaccio al Carmine anche ai giorni suoi: “[…] da infiniti disegnatori e maestri continuamente fino al dì d’oggi è stata frequentata questa cappella. […] tutti i più celebrati scultori e pittori che sono andati da lui in qua, esercitandosi e studiando in questa cappella, sono divenuti eccellenti e chiari”. E ne fa i nomi; prima quelli dei grandi del Quattrocento, poi quelli dei suoi contemporanei: “[…] Lionardo da Vinci, Pietro Perugino, fra’ Bartolomeo di San Marco, Mariotto Albertinelli et il divinissimo Michelagnolo Buonarroti; Raffaello ancora da Urbino di quivi trasse il principio della bella maniera sua [il corsivo è mio], il Granaccio, Lorenzo di Credi, Ridolfo del Grillandaio, Andrea del Sarto, il Rosso, il Franciabigio, Baccio Bandinelli, Alonso Spagnolo, Iacopo da Puntormo, Pierino del Vaga e Toto del Nunziata”.
Negli esercizi alla Brancacci, Vasari dunque intruppa Raffaello fra gli artefici illustri del Cinquecento (compreso Berruguete, ch’era venuto dalla Spagna e coi fiorentini aveva avuto a che fare). E sono più o meno gli stessi che Vasari enumera fra quelli che nei medesimi anni s’educavano sul cartone di Michelangelo per la Battaglia di Cascina. Raffaello è menzionato proprio in mezzo a coloro che saranno i migliori della ‘maniera moderna’. E Vasari commenta: “tutti coloro che su quel cartone studiarono e tal cosa disegnarono, come poi si seguitò molti anni in Fiorenza per forestieri e per terrazzani, diventarono persone in tale arte eccellenti”.
C’è però un brano nel ragguagliato rendiconto vasariano di quell’età mirabile che meglio d’ogni altro si presta a illustrare la vivacità culturale fiorentina di cui Raffaello fu partecipe. È la memoria degl’incontri cólti che avvenivano nella bottega di Baccio d’Agnolo, ‘legnaiolo’ e architetto di solida eleganza. Vi si legge che nelle stanze di Baccio si davano convegno, “oltre a molti cittadini, i migliori e primi artefici dell’arte nostre, onde vi si facevano, massimamente la vernata, bellissimi discorsi e dispute d’importanza. Il primo di costoro era Raffaello da Urbino, allora giovane [il corsivo è mio]”; poi, come nei casi che si sono or ora evocati, segue una lista coi nomi d’altri maestri grandi che vi prendevano parte; la quale si chiude così: “et alcuna volta, ma però di rado, Michelagnolo, e molti giovani fiorentini e forestieri”.
Raffaello è quindi presente (e presumibilmente non silenzioso) mentre si fanno quei “bellissimi discorsi” e quelle “dispute d’importanza”, che vedono coinvolti “i migliori e primi artefici dell’arte” a Firenze e “molti cittadini”. E chi potranno mai essere quei “molti cittadini” che sono interlocutori degli artisti? Chi, se non intellettuali interessati a ragionare di cultura con artisti di rango? E quali “bellissimi discorsi” avranno fra loro imbastiti in un momento in cui germinava una sensibilità nuova, una nuova lingua e un nuovo gusto antiquario, che decisamente si spostava sui languori ellenistici?
A Firenze la “maniera moderna”, se proprio non nasce nella bottega d’un artefice di spicco come Baccio, certo è lì che viene ideologicamente ratificata. E Raffaello – l’attesta Vasari – bazzicava (e non da comprimario) quella bottega, dove non solo era a pieno titolo partecipe delle “dispute d’importanza” su un’espressione che radicalmente andava mutando, ma soprattutto imprimeva una svolta alla lingua sua personale. A contatto coi maestri fiorentini, l’eloquio gentile e il lessico prezioso di matrice umbra cedono il posto a stilemi inediti, con una lettura più verdica (ancorché sempre amabile) della natura e dell’umanità.