Un viaggio nelle opere di Michelangelo
Il 18 febbraio 1564 moriva il grande artista, ripercorriamo insieme le tappe essenziali della sua vita attraverso i suoi capolavori più famosi
Il mito di Michelangelo principiò con lui ancora vivente; e tuttora vige nelle menti e nei cuori d’ognuno. Al suo nome, già nel Cinquecento, s’abbinava l’appellativo di “divino”. La sua espressione tocca le più estenuate dolcezze – nel corpo adolescente di Gesù nel piccolo Crocefisso di Santo Spirito a Firenze oppure nel volto soave della Vergine nella Pietà di San Pietro in Vaticano – e nel contempo perviene alle forme eroiche, scolpite o dipinte che siano – dal David fiorentino (1504) ai giganti inquieti sulla volta della Cappella Sistina (1508-1512).
Il David, appunto; per rimanere nell’aura del mito. Il colosso, eretto in origine sull’arengario di Palazzo Vecchio e nell’Ottocento portato in un ambiente grandioso appositamente costruito nella fiorentina Galleria dell’Accademia (che dal 15 febbraio ospita anche una mostra che racconta l'artista attraverso l’effigie in bronzo di Daniele da Volterra), è, al pari della Gioconda di Leonardo, icona del Rinascimento. Icona venerata alla stregua d’una reliquia miracolosa. A tal segno oggetto d’ossequio da sortirne usurata la sua pur altissima poesia, ridotta a culto d’un feticcio.
Il David, invece, va considerato e letto come un testo poetico frutto del grande umanesimo fiorentino, quello cioè che fece ovunque brillare Firenze per tutto il Quattrocento (e oltre), in virtù specialmente del mecenatismo coltissimo di Cosimo de’ Medici e di Lorenzo il Magnifico. Guardare il David soltanto per sbalordire al cospetto della sua bellezza solare significa limitarsi all’epidermide di quel marmo superbo e spengerne il fuoco lirico che lo anima. Ogni opera d’arte vive di forma e contenuto. Fermarsi alla forma vuol dire precludersi il suo significato; e non c’è modo di godere d’un testo poetico (di parola o di figura) quando non ci sia data la possibilità di comprenderlo nella sua interezza.
Il David, come qualsiasi creazione d’arte, porrà interrogativi pressanti a chi lo guardi con l’idea di darsi ragione del contenuto che lo sottende. ¿Perché le sue misure sono incompatibili con quelle che tradizionalmente vengono attribuite al campione d’Israele? Perché non è quel giovinetto delicato e anzi effeminato che avevano fuso nel bronzo Donatello e Verrocchio? Perché, anzi, è un gigante, come infatti lo chiamano le carte d’archivio di primo Cinquecento? Se fossimo avvezzi a osservare le opere d’arte per capirle e non per meravigliarci non potremmo sfuggire ai quesiti che riguardano l’invenzione di Michelangelo per il suo David.
Eppure nella Bibbia (nel Primo Libro di Samuele) una spiegazione c’è. Se in un primo rendiconto il giovane ebreo è un fanciullino gracile e Golia è un colosso di dimensioni abnormi, in un secondo ragguaglio David è un giovane pastore, privo d’esperienze belliche, ma nella norma quanto a costituzione, e Golia è un uomo d’armi ma non un gigante. Di riguardo sono però le parole che David rivolge a Saul che teme possa soccombere: “Il tuo servo custodiva il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la preda dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso. Codesto Filisteo non circonciso farà la stessa fine di quelli”.
Ecco: è difficile figurarsi in un’impresa siffatta i David di Donatello e Verrocchio; lo stesso però non si dirà per quello di Michelangelo, ch’è simbolo sì della fede in Dio (in quanto eroe biblico che a lui si rimette), ma è insieme emblema di forza indomita (in quanto dal Buonarroti rappresentato con sembianze d’Ercole). Fede assoluta e forza indomita erano appunto le virtù in cui si voleva specchiare la giovane repubblica fiorentina di Pier Soderini (1502-1512). Ma chi sentirà il bisogno d’andare oltre il visibile, oltre cioè quell’immagine di nudità consacrata dall’industria culturale per comprenderne il significato, se nessuno s’impegna in un’educazione meno conformistica?
A buon diritto gli ospiti che visitano Firenze s’affollano alla Galleria dell’Accademia, ma vien di chiedersi quanti entrerebbero in quelle sale se per assurdo il David fosse trasferito altrove. Eppure, sempre lì, in quel museo peraltro ricchissimo d’opere d’arte, sono esposte altre sculture di Michelangelo; a cominciare da quattro Prigioni che l’artista aveva concepito e in buona parte scolpito per il monumento funebre (mai terminato) di papa Giulio II: uomini tutti presi dallo sforzo di svincolarsi dalla morsa d’una materia che s’oppone alla loro gestualità; marmi che, nelle loro posture avvitate, paiono attendere l’intervento d’un antico artefice ellenistico che le porti a conclusione. E in quel medesimo salone che s’allunga verso il David, dove i Prigioni allineati si contrappongono, s’erge il sublime San Matteo, l’unico apostolo avviato e lasciato incompiuto da Michelangelo nel contesto della commissione dei dodici, ch’erano destinati al duomo fiorentino.
Il 1506 è l’anno in cui di solito si colloca la sua lavorazione ed è una data importante, giacché proprio nel gennaio del 1506 era stato scoperto a Roma alla presenza di Michelangelo il gruppo del Laocoonte, marmo ellenistico che toccò l’animo di quasi tutti gli artisti di quella stagione e fu – a detta di Giorgio Vasari – nel novero di quelle sculture (ellenistiche appunto) che determinarono lo scatto decisivo verso la “maniera moderna”. È giustappunto nel San Matteo che si trova una delle prime e più struggenti desunzioni dal Laocoonte: nell’apostolo l’attitudine del corpo si conforma a quella che assume il figlio di destra del sacerdote troiano stretto dalle spire del serpente.
Al gruppo ellenistico Michelangelo ricorse anche per un’altra sua creazione, al pari del David celebrata, ma stavolta di pittura: il Tondo Doni (anch’esso a Firenze, nella Galleria degli Uffizi). L’evocazione del Laocoonte è palese in uno dei nudi che stanno dietro la Sacra Famiglia, nella fattispecie in quello che subito a sinistra dell’omero di Giuseppe se ne sta seduto su un muro in fieri. E però son tutti quei nudi a riferirsi a modelli ellenistici; cui peraltro rimontano le stesse figure maggiori.
Anche il Tondo Doni è un’opera al centro della devozione dei visitatori. E di nuovo se ne capisce la ragione, tanto rara è la sua bellezza. Ma un’altra volta ci si dovrà domandare perché al suo cospetto nessuno (o quasi) si chieda quale ne sia il pensiero sotteso. Eppure a sollevare questioni basterebbero proprio quei cinque giovani atleti nudi, o in atto di spogliarsi, dietro la Madonna. ¿È possibile non porsi un interrogativo al loro riguardo? ¿E poi come si fa a non chiedersi della gestualità inusitata di Maria e di Giuseppe? E finalmente cosa significa quel muretto che spartisce in orizzontale il tondo, con Gesù bambino da una parte e il piccolo Battista dall’altra?
Anni fa m’è occorso di congetturare che tutta l’iconografia del tondo sia confortata dalla Lettera di San Paolo agli Efesini, per via dei concetti che la informano e che alludono al battesimo (di cui è figura il muretto); sacramento che giustappunto si confà a un’opera verosimilmente dipinta per la nascita d’un figlio, tanto attesa e desiderata dai coniugi Doni. Nel 1507, infatti, l’8 settembre (festa della natività della Vergine), venne alla luce una bimba, cui in ossequio al suo dì natale, fu dato il nome di Maria. E quel sogno a lungo coltivato fu celebrato da Agnolo Doni con l’incarico a Michelangelo di dipingergli un Sacra Famiglia.
Finito il Tondo Doni, l’artista nel 1508 torna a Roma; ci torna però con altra e più matura consapevolezza, per aver vissuto a Firenze gli anni belli e straordinariamente proficui della Repubblica di Soderini, che fu una vera e propria ‘età dell’oro’ per la città, divenuta allora la fucina della ‘maniera moderna’. Allo scorcio del secolo precedente Michelangelo aveva scolpito a Roma il gruppo commovente della Pietà di San Pietro, dove il corpo di Cristo morto, d’atletica complessione, sta disteso sulle cosce di Maria e abbandona il braccio destro sul ginocchio della madre. La quale, pensosa, col volto delicato d’una bimba in un corpo di contadina toscana, esibisce quel suo figlio esanime come in un’ostensione eucaristica. Maria: figlia e insieme madre di Dio.
Quantunque carico di pathos – con quel volto languoroso di Cristo d’efebica fisionomia appena segnato da cenni di peluria e con quei panni che ridondanti franano a terra dalle gambe della Madonna e che sul petto le s’increspano e s’aggrumano frementi – il gruppo marmoreo di Michelangelo non traligna dalla lingua figurativa del Quattrocento. I riccioli morbidi, per esempio, che s’avvolgono a incorniciare il viso di Gesù, ben s’inquadrano nella cultura fiorentina della seconda metà di quel secolo (per capacitarsene basterà volgersi alla cerchia del Verrocchio).
Ma la Pietà fu da lui scolpita a Roma – s’è appena detto – sul chiudersi del Quattrocento. Quando però Michelangelo fa ritorno nell’Urbe, il percorso espressivo è mutato alla luce dell’esperienze fatte immediatamente prima a Firenze; dove, fra il 1504 e il 1508, s’era trovato a lavorare non solo coi maestri di lì, ma soprattutto quasi fianco a fianco con Leonardo e Raffaello (tutt’e tre presenti contemporaneamente in riva d’Arno). Senza dir poi delle grandi commissioni promosse dalla Repubblica, molte delle quali non pervennero al termine, ma tutte comunque nate con l’aspirazione a un monumentalità che doveva essere segno della nobiltà e dell’eccellenza della città.
Nel 1508 Michelangelo dunque va a Roma e in quello stesso anno anche Raffaello lascia Firenze per la città dei papi: entrambi se ne partono trasformati dalle vicende vissute sull’Arno in quei pochi anni d’inizio Cinquecento. Raffaello principia con un rinnovato piglio, maestoso e fiero, le “stanze” vaticane e Michelangelo avvìa l’affrescatura titanica della volta della Cappella Sistina, finita nel 1512. All’impostazione quieta e riposata della Pietà subentrano ora l’agitazione e l’inquietudine di profeti e sibille che insieme alle storie bibliche si stagliano nel cielo dell’aula vasta, dove poi lo stesso Buonarroti avrebbe, una ventina d’anni dopo, affrescato il groviglio convulso di corpi precipiti nel Giudizio Universale: turbata scena grandiosa ch’è la conclusione ineluttabile del tragitto dell’umanità, cominciato sulla volta con la creazione narrata nel Genesi e poi dipanato negli episodi desunti dall’Antico Testamento.
La volta della Sistina si fa, insieme al Tondo Doni, icona del celebre brano che Vasari pone come un faro nel proemio all’ultima parte delle sue Vite, là dove dichiara che a far virare l’arte verso la ‘maniera moderna’ fu la scoperta di sublimi sculture ellenistiche: quanto non erano riusciti a trovare i maestri pur grandi del Quattrocento “bene lo trovaron poi dopo loro gli altri, nel veder cavar fuora di terra certe anticaglie, citate da Plinio delle più famose: il Lacoonte, l’Ercole et il Torso grosso di Belvedere, così la Venere, la Cleopatra, lo Apollo, et infinite altre, le quali nella lor dolcezza e nelle lor asprezze, con termini carnosi e cavati dalle maggior’ bellezze del vivo, con certi atti che non in tutto si storcono ma si vanno in certe parti movendo”, impressero una svolta decisiva alla storia dell’arte.
Anche per Michelangelo quelle scoperte furono il principio d’un corso nuovo; un corso il cui scabro (ma quanto lirico e commovente) crepuscolo è rappresentato dalla Pietà Rondanini nel Castello Sforzesco di Milano. Emaciata e cruda scultura che davvero – anche per essere rimasta incompiuta – si colloca fuori dal tempo e dalla storia. E resta difficile dire se sia un capo d’opera d’un artefice antico oppure d’uno scultore romanico, o se invece non sia un’invenzione d’annoverare fra quelle che avrebbero potuto concepire alcuni artisti del Novecento, da Arturo Martini a Venturino Venturi.
Davvero la giovanile Pietà di San Pietro e la tarda Pietà Rondanini si pongono come i limiti d’un itinerario non solo biografico, ma soprattutto espressivo. Entrambe situabili fra i raggiungimenti più eminenti dell’arte occidentale, riflettono al massimo grado due stagioni culturali intense e vibranti: la prima si pone al culmine dell’umanesimo quattrocentesco e sulla soglia ormai d’una nuova ‘maniera’, la seconda è l’esito più potente della spiritualità sancita dalla Riforma cattolica, non già umbratile come si suol credere, bensì plasmata da pensieri e sentimenti profondi e forti.