L’eleganza di Tilda
Incontro con l’attrice inglese Tilda Swinton, nelle sale questo inverno con il nuovo film di Luca Guadagnino
Tilda Swinton. Una delle immagini di Dio, se lo pensi donna. Non c’è un’attrice al mondo che esprima, come lei, l’eleganza, la classe, l’audacia, l’anticonformismo, il genio. E la passione. È composta, precisa come una melodia sul clavicembalo, come un’equazione matematica.
Ma è anche capace di gesti di un coraggio inaudito. E rimane composta, come una statua fatta di luce, la pelle bianchissima, sovrannaturale. Era all’università, quando la vide il pittore e film-maker più radicale, più folle della scena britannica, Derek Jarman. Quando incontrava qualcuno per la prima volta, Jarman lo filmava in super8. Lo fece anche con Tilda, e disse alla sua assistente: “Oh mio Dio. L’ho trovata”.
Aveva trovato non solo la protagonista di Caravaggio, ma di sei suoi film. Una collaborazione così lunga e vitale - con Edoardo II Tilda vinse nel 1992 la Coppa Volpi a Venezia - non sarebbe esistita se Tilda non fosse speciale. Se non avesse sempre privilegiato il rapporto umano su ogni altro aspetto. “Quando scelgo un film, il progetto viene dopo. Prima c’è il regista”. Con Jarman lavorò anche quando lui, stremato dall’Aids, stava morendo, quando non c’erano più soldi e lei, per tirare avanti, si ritrovò a scommettere sui cavalli.
Ma l’arte, il cinema, la bellezza vennero prima di tutto. Passò il buio, venne anche un Oscar, per la sua fantastica interpretazione della consulente legale corrotta, gelida, arrivista di Michael Clayton, che cerca di nascondere lo tsunami della sconfitta sotto una maschera di freddezza. Fra i registi più intelligenti, la hanno voluta in tanti: Jim Jarmusch, Tim Roth, David Fincher, Wes Anderson. Qualcuno la ricorderà come la Strega bianca delle Cronache di Narnia: per lei, probabilmente, è stata solo una parentesi. Ha dato il suo magnifico volto al cinema mainstream solo in rare occasioni.
A Firenze, Tilda è venuta la scorsa primavera. Con un piccolo, esclusivo progetto: Cloakroom, uno degli eventi di Pitti Uomo 2015. Una performance dedicata al guardaroba, piccolo tempio che per poche ore accoglie i nostri vestiti, una parte di noi. Un piccolo mondo che sopravvive solo nei teatri. Al Teatro della Pergola, Tilda Swinton ha accolto gli spettatori e, come una guardarobiera, li ha invitati a lasciare un capo di abbigliamento.
Con quei vestiti, ha improvvisato uno spettacolo fatto di gesti, abbracciando cappotti e sciarpe, mescolando soprabiti e scialli, carezzandone l’anima. Con lei, Olivier Saillard, direttore del Museo Galliera di Parigi. L’attrice del resto ha già rapporti intensi con la moda: è testimonial di Coco Chanel e - per l’Italia - di Pomellato.
Ma il nuovo capitolo della sua storia d’amore con l’Italia passa da Venezia. Alla Mostra del cinema, lo scorso settembre, ha presentato A Bigger Splash di Luca Guadagnino. A Bigger Splash è il remake di un film degli anni ’60, La piscina di Jacques Deray, con Alain Delon e Romy Schneider. La storia è un groviglio di desideri, seduzioni, recriminazioni, fra il sole accecante di una Sicilia che è già quasi Africa. Tilda Swinton, in questo contesto quasi da film di Antonioni, è una rockstar che ha perso la voce e non può parlare. In tutto il film, consuma solo tre parole rauche e un grido, fortissimo, lacerante.
Tilda, di chi è stata l’idea di un personaggio che non può parlare?
Con Luca parliamo molto: a volte queste conversazioni diventano un film, a volte no. Il film è nato proprio quando Luca ha accolto il mio suggerimento che Marianne non parlasse. In quel periodo, io stessa non mi sentivo di parlare. Recentemente ho perso mia madre, le parole non riuscivano a uscire.
Il suo personaggio è una rockstar. E una delle scene la vede in uno stadio gremito. Che era lo stadio di un vero concerto rock. Che effetto le ha fatto girare lì, con quarantamila persone davanti?
Vasco Rossi è stato molto generoso a “regalarci” il suo pubblico per girare una scena. Ovviamente era qualcosa a cui non ero lontanamente preparata, qualcosa di totalmente insolito per chi lavora nel cinema o nel teatro. Ero preoccupata. Ma i fan sono stati gentilissimi. Potevano fischiarmi, ma non lo hanno fatto!
Nel film, girato a Lampedusa, si accenna più volte al tema dei migranti. Che cosa pensa della questione dei migranti, qual è la sua posizione?
Vorrei che tutti, la stampa e la gente, abbandonassero l’abitudine di chiamarli ‘migranti’: sono rifugiati di guerra. E questo dice molto sulla loro condizione, e sulla posizione che dovremmo prendere.
Come vede, oggi, la sua carriera?
Mi scopro spesso a sentirmi in colpa per non essere una vera e propria attrice. Non mi sento una professionista, anche se ho fatto un po’ di film negli ultimi trent’anni. Non ho mai cercato di entrare nell’industria del cinema, e mi sento tuttora una outsider. Non ho una “carriera”. Ho una vita: seguo la mia vita, e dentro la mia vita ci finiscono i film.