Il nostro omaggio a Francesco Nuti
Il ricordo del grande attore e regista fiorentino attraverso i suoi film più iconici e le parole del giornalista Piero Ceccatelli
Francesco Nuti è stato figlio perfettamente legittimo di Prato. Nella formazione del carattere, nei pregi ed anche in certi eccessi e difetti. Di certo, Prato ne riconobbe subito il talento (fatto non scontato, per altri concittadini) e lo ha amato ‘nella buona e cattiva sorte’. O, se non proprio amato, lo ha tollerato e perdonato, al mutare del carattere e degli eventi.
Nato a Firenze, Francesco crebbe a Narnali nella bottega di barbiere del babbo Renzo. Davanti agli occhi, un andirivieni di tipi maschili, un crogiolo di racconti, sfoghi, confidenze, fandonie. Lui, timido per natura, osserva e immagazzina. Narnali è un insieme di campi e fabbriche attorno alla strada che va e viene da Pistoia. La fabbrica che dà lavoro a metà paese è un lanificio che porta il nome di Temistocle e Omero Nesi. Il nipote, Edoardo Nesi vincerà il Premio Strega 2011 con un libro sul declinante tessile di Prato. Ogni giorno che passa, Narnali è più vicina alla città, che allunga i tentacoli con case e capannoni. Dalla parte opposta Montemurlo cresce senza regole ed avanza fino a sfiorare Narnali. Quando Nuti arriva, Narnali era paese, quando è adolescente è già periferia. L’evoluzione (evoluzione?) urbanistica consente a Francesco di diventare pratese senza sentirsi ragazzo di campagna. Dopo la sua morte si è propagata una foto profetica: Francesco Nuti e Paolo Rossi, più adolescenti che bimbi, affiancati in maglietta da calcio. Vulgata vuole che Nuti covasse fin da piccolo la determinazione al successo e sognasse di raggiungerlo col pallone. Era bravo. Ma il confronto con Paolino lo avrebbe consigliato a cambiar settore.
Per un contorto giro del destino Francesco imbocca la strada giusta iscrivendosi al Buzzi, scuola per periti tessili e chimici, centro di formazione al lavoro e alla ‘pratesità’. Il Buzzi è anche la scuola delle Pagliette, gruppo goliardico che ostenta sorridente il cappello indossato da nonni e bisnonni. Le Pagliette sono scanzonate e irridenti nel giorno delle matricole e delle scorribande nelle scuole rivali, ma serissime nell’allestire la Rivista, ibrido fra cabaret e avanspettacolo con testi ispirati a Prato, che ogni primavera riempie il teatro per settimane.
Attori, rigorosamente allievi in corso e memorabili ex. Chi non recita, è trovarobe, cerca soldi, fa la maschera alla fine tutti sul palco, per l’applauso che accomuna figure oscure e protagonisti. Fra questi, a furor di popolo, Francesco Nuti. Studente e Paglietta recita (memorabile il suo faraone Tutankhamon) per ‘diritto’ e non per manifesta bravura. Da generazioni i pratesi scoprono al Buzzi il proprio talento nel disegnare e tingere stoffe e filati, diventare impannatori e industriali. Francesco Nuti vi scopre per sempre che la sua strada è lo spettacolo. Non ce n’era bisogno, ma è una bella conferma, per un talento intanto conteso da chiunque in città: le compagnie amatoriali che nascevano attorno a Rodolfo Betti, alla Guido Monaco; come i gruppi di spettacolo di cui era leader il fratello Giovanni, medico e musicista; come le discoteche dove si manifestava in piena notte. Un Francesco Nuti in vena di nostalgie ricorderà con estrema precisione che il 14 aprile 1973, non ancora diciottenne, salì sul palco della ‘Monaco’ per Staccia Buratta l’Italia l’è un po’ matta, aggiungendo orgoglioso che da quel giorno “il lesso l’ho sempre portato a casa e la fame, come attore, non l’ho mai patita”. E infatti Nuti è chiamato nei circoli e nelle case del popolo, nei teatrini che sopravvivevano in ogni paese e frazione dove portava la sua opera prima, Pollo d’allevamento: vita più meno standard di un uomo qualunque, a nome Chiaramonti. Un successo, legittimato dalla coincidenza creativa che vide Giorgio Gaber, nei mesi successivi, in tour con il quasi omonimo Polli d’allevamento. E intanto Nuti riceverà la nomina a direttore artistico di Radio Prato. Come una piccola RAI, questa ricalcava l’assetto politico della città, minoranze comprese: quell’incarico era quasi un’investitura pubblica. La radio si rivela una piccola gabbia, per Francesco, cavallo di razza non portato per indole a compiti d’ordine e un po’ frustrato nell’esprimersi solo con la voce. Un volto che parla a bocca chiusa come il suo, che già porta a scomodare lontani paragoni con Chaplin non può restare nascosto dietro un transistor. Infatti, Alessandro Benvenuti e Athina Cenci, i due terzi sopravvissuti dell’eternamente tormentato gruppo dei Giancattivi chiamano Nuti a completare il trio, già celebre, grazie alla tv e imperversante nei teatri con un cabaret colto e incline al non-sense. Francesco riconduce il gruppo sulla terra. Terra, come concretezza dei riferimenti. Terra, nel senso di Toscana e della sua parlata inconfondibile. I Giancattivi ricambiano restituendo a Nuti il volto e offrendolo ai quarantaquattro milioni di occhi degli italiani che, sulla Rai agli sgoccioli del monopolio, seguono Non Stop, che ospita i Giancattivi, ora con Nuti in squadra.
È il 1978. Prato che lavora indefessa e si arricchisce, arricchendo chiunque vi arrivi con buone intenzioni, assiste quasi senza accorgersene agli exploit di ragazzi spuntati spontaneamente, come fiori di campo (o fiori di Prato…) e avviati a immediate, folgoranti carriere. Nella moda Enrico Coveri, il più funzionale alla città e al suo tessile dilagante è il più giovane stilista chiamato da Parigi a sfilare con le collezioni donna. Paolo Rossi, capocannoniere in serie A col Lanerossi Vicenza segnerà tre gol al mondiale in Argentina. Ma è nello spettacolo che si rileva la massima concentrazione. Roberto Benigni di Vergaio, tre km da Narnali, ha appena girato Berlinguer, ti voglio bene, diretto da Giuseppe Bertolucci e, un po’ emarginato a Prato, si stabilisce a Roma, dove il suo talento viene compreso e lui spicca il volo. A Roma già vive la ventunenne Pamela Villoresi, che lasciò ragazzina Prato per esprimersi appieno come attrice dal registro classico e drammatico, albori di una carriera che la porteranno a ruoli manageriali nel teatro e alla chiamata di Sorrentino per la Grande Bellezza, che vincerà l’Oscar. Francesco Nuti è il solo ad esser immediatamente compreso - e trattenuto - dalla sua città che gli offre ispirazioni e cui restituisce divertimento e una certa fama.
Nel crogiolo di talenti che spuntano nella Prato di fine anni Settanta si manifesta un ventenne che dieci anni dopo si rivelerà uno dei maggiori scrittori italiani. È Sandro Veronesi, conduce programmi nelle radio, studia architettura. Scrive per diletto e per farsi le ossa su una pubblicazione che esce a gennaio 1979. Si intitola Il Mensile, lo pubblica un editore altoatesino, Pino Hoffer, mischiando inchieste, satira, focus inediti sulla città. E interviste. Sul numero zero Sandro Veronesi, classe 1959 intervista Francesco Nuti, classe 1955. Amici in radio e fuori. Sandro spoglia Francesco con domande piccanti.
Anzitutto riguardo all’ombra che su di lui esercita Roberto Benigni: “Da quando Benigni è scoppiato a livello nazionale, l’ho sofferto molto - ammette Nuti - ma se c’è somiglianza fra me e lui è solo perché, ambedue pratesi, abbiamo vissuto le stesse esperienze, lui a Vergaio, io a Narnali. Anch’io ho conosciuto le case del popolo. La scena del bar in Pollo d’allevamento Ciao Chiaramonti è simile alle scene del bar di Benigni, ma non l’avevo copiata da lui, perché anch’io l’ho vissuta”. “Quando mi dicono che assomiglio a Benigni, mi scoccia se intendono dire che io lo imitò, il che non è vero come sanno le persone, e anche te, che mi hanno conosciuto anche prima che il Benigni avesse successo. Se Nuti così com’è fosse milanese, non ci sarebbe questo problema”.
Carne viva, insomma. Veronesi vira sulla cultura ‘istituzionale’ di Prato, su Ronconi e il Laboratorio di progettazione teatrale ora al centro della frattura fra Pci (che vuol proseguire) e Psi (che vuol tagliare).
Nuti risponde da spirito libero. “C’è solo questo Laboratorio, ma nessuna delle fasi intermedie per arrivare a comprenderlo in pieno. Io non ho capito gli spettacoli di Ronconi perché non sono in grado di comprendere subito un linguaggio sperimentale. Per evitare che sia uno spettacolo di élite servono interventi ai livelli più popolari. Bisogna portare il teatro alle masse come fatto di cultura, di svago, di partecipazione comune”. Un manifesto del teatro e dello spettacolo firmato Nuti. Quello di immediata comprensione, che lui porta in scena di periferia in periferia alternandoli ad apparizioni da venti milioni di spettatori sulla Rai, assieme ai Giancattivi.
Dopo la tv, i Giancattivi portano Francesco nel cinema. Tutto a Firenze: il set, la parlata, la vicenda, La potenza di Nuti sta nel fatto che con il suo pellegrinare da attor viaggiante nelle periferie ha imposto alla fantasia popolare il nome di Paperino, paese alle porte di Prato realissimo, ma potenzialmente immaginario con quell’improbabile nome. Quando nel film alla domanda di Francesco “Dove vai?” Alessandro Benvenuti risponde: “Ad ovest di Paperino”. Poi, fissandolo negli occhi: “Un c’è Paperino? Ecco, a Ovest”, si disegna un luogo che dice tutto e niente, meta agognata e indecifrabile, piccolissima trasposizione nello spazio della potenza che Aspettando Godot rappresenta per la dimensione temporale. L’impronta pratese di Nuti sui Giancattivi è tale che il film porti un titolo legato a Prato. Senza esser dissacratori, l’America fu scoperta da Colombo, ma Vespucci le diede il nome. Prato, Prato. Il cordone non si recide nemmeno quando la Firenze degli anni Ottanta, per una volta meravigliosa anche per la vivacità nelle arti contemporanee, lo avvolge e lo abbraccia. Nuti, come fatalmente fa ogni pratese in società con qualcuno, se ne va e si mette in proprio. Ed è a Prato e alla propria autobiografia che ispira il debutto nel cinema. Madonna che silenzio c’è stasera racconta di un giovane che cerca lavoro in una ditta tessile (e lui, assunto a vent’anni in un lanificio, da lì se n’era appena andato, resistendo definitivamente all’ultima tentazione di non fare l’attore). Suggestioni da Chaplin, col telaio che si ribella all’uomo e coi telai che col rumore infernale impediscono ogni dialogo. E chi lavora grida a più non posso per farsi ascoltare dal vicino, che risponde a gesti, palesando mani ridotte a moncherini, definitivo affresco della città malata di lesioni al timpano e infortuni sul lavoro. Per Nuti è la consacrazione: da ora non sarà più possibile restare legato fisicamente a Prato, La vita si svolgerà a Roma, capitale del cinema e di un po’ tutto nella cultura, i film si gireranno a Firenze e dove chiama l’industria di cui Francesco è un formidabile ingranaggio. Tornerà a Prato riservatamente o in modo vistoso, con fuoriserie e fidanzata (“mai vista prima una Ferrari dentro una Ferrari”, dirà il barbiere del paese), rubando la scena al prete a una messa di Natale in cui tutti guardavano lui e lei. Poi furono scintille con la sua città, la notte in cui si girava al Castello una gara di biliardo e lui si presentò tardissimo, fra comparse spazientite. Prato lo perdonò, mentre Francesco iniziava la serie dei ‘silenzi’ che fatalmente, dopo quel film che intenerì il mondo, accompagnano semanticamente la sua parabola. Il silenzio terminata l’ispirazione e il successo dei grandi film; il silenzio di lui sopraffatto dai demoni che lo consumavano come uomo e quello fisico determinato dall’incidente in casa. Fino al silenzio dell’ultimo giorno, beffardamente accresciuto dal gran clamore che si levò per la morte di Silvio Berlusconi, che tutto si prese delle cronache e delle emozioni. Povero Francesco, che ha pagato pegno a chi della Comunicazione è stato tutto: mattatore e padrone. Lui che comunicava con uno sguardo. Ovviamente, in silenzio.