10 opere imperdibili degli Uffizi
Dieci capolavori da non perdere per una visita incredibile dentro al museo più celebre al mondo
Un elenco di Bellezza, quella senza tempo che racconta la storia dell’arte non attraverso le parole ma attraverso immagini di grande equilibrio e fascino. Dieci capolavori, dieci artisti: ognuno di loro vale da solo una visita alle Gallerie degli Uffizi, uno dei musei che assolutamente vi consigliamo di vedere a Firenze, inesauribile scrigno di bellezza.
Un consiglio: prendete molto tempo e assaporate con calma ogni opera negli allestimenti recentemente rinnovati. Vi condurranno in universi fantastici… Ma non finisce qui, se preferite una guida più approfondita non perdere il nostro bellissimo percorso!
Cimabue, Maestà di Santa Trinita, 1280-1290. Sala 2
Proveniente dalla chiesa vallombrosana di Santa Trinita a Firenze, il dipinto è attribuito fin dal XVI secolo come opera di Cimabue, il più importante pittore fiorentino del XIII secolo. Sopra un grande trono d’avorio, imponente e articolato come un’architettura, la Vergine indica con la mano destra il Figlio che tiene in braccio, secondo il modello bizantino della Odigitria, cioè colei che mostra la via della salvezza. Gesù Bambino, abbigliato come un antico filosofo, benedice e stringe una pergamena arrotolata, forse il rotolo della Legge. Le vesti di Maria e del Figlio sono caratterizzate da una preziosa decorazione dorata, agemina, caratteristica della tradizione pittorica bizantina. Intorno al gruppo mariano, otto angeli dalle splendide ali variopinte sorreggono delicatamente il trono. Piuttosto insolita è la raffigurazione, al di sotto del trono, di alcuni profeti dell’Antico Testamento (da sinistra: Geremia, Abramo, David e Isaia) che tengono filatteri con brani delle Sacre Scritture allusivi ai misteri dell’Incarnazione e della Verginità di Maria.
Piero della Francesca, Dittico dei Duchi di Urbino, 1465-1472 circa. Sala 8
Fra i più celebri ritratti del Rinascimento italiano, il dittico raffigura i signori di Urbino, Federico da Montefeltro (1422-1482) e sua moglie Battista Sforza (1446-1472). In accordo con la tradizione quattrocentesca, ispirata alla numismatica antica, le due figure sono rappresentate di profilo, immuni da turbamenti e emozioni. L’unità spaziale condivisa dai coniugi è suggerita dalla luce e dalla continuità del paesaggio collinare sullo sfondo – il paesaggio marchigiano su cui i Montefeltro regnavano. Spicca il contrasto cromatico fra l’incarnato abbronzato di Federico e quello chiarissimo di Battista Sforza, pallore che, oltre a rispettare le convenzioni estetiche in voga nel Rinascimento, potrebbe alludere alla precoce scomparsa della duchessa, morta giovanissima nel 1472. Sul retro delle tavole, i duchi sono effigiati mentre vengono portati in trionfo su carri, accompagnati dalla Virtù cristiane; le iscrizioni latine inneggiano ai valori morali della coppia. Opera tra le più famose di Piero della Francesca, il doppio ritratto si inserisce nell’ambito di consolidato rapporto fra il pittore e i duchi di Montefeltro, alla cui corte Piero soggiornò ripetutamente. Il maestro concilia la rigorosa impostazione prospettica appresa durante la formazione fiorentina con la rappresentazione della natura propria della pittura fiamminga.
Sandro Botticelli, Primavera e Nascita di Venere. Sala 10-14
Due sono i capolavori di Botticelli agli Uffizi che incantano il pubblico di tutto il mondo. Iniziamo con una curiosità: entrambi i dipinti hanno come protagonista Simonetta Cattaneo Vespucci nobildonna genovese amata da Giuliano de' Medici, il fratello minore di Lorenzo il Magnifico, e idolatrata da Sandro Botticelli, che ne fece la sua Musa, rendendola eterna nei suoi più famosi dipinti. La troviamo, infatti, nelle vesti della dea Venere nella Nascita di Venereoppure in una delle Tre Grazie (quella al centro) nell'allegoria della Primavera.Fu musa ispiratrice anche per numerosi altri artisti, tra i quali si distinse Piero di Cosimo, che dipinse il Ritratto di Simonetta Vespucci, nel quale è raffigurata come la regina Cleopatra, con un aspide che le cinge il collo Venendo alle opere, entrambe di grandi dimensioni, il primo conosciuto con il nome di Primavera, mostra nove figure della mitologia classica che incedono su un prato fiorito, davanti a un bosco di aranci e alloro. In primo piano a destra, Zefiro abbraccia e feconda la ninfa Clori, raffigurata poco oltre nelle sembianze di Flora, dea della fioritura. Dominano il centro della composizione, leggermente arretrati, la dea dell’amore e della bellezza Venere, castamente vestita, e Cupido, raffigurato bendato mentre scocca il dardo d’amore. A sinistra danzano in cerchio le tre Grazie, divinità minori benefiche prossime a Venere, e chiude la composizione Mercurio, il messaggero degli dei con indosso elmo e calzari alati, che sfiora col caduceo una nuvola. L’opera celebra l’amore, la pace, la prosperità. La vegetazione, il cui colore scuro è in parte dovuto all’alterazione del pigmento originale, è rischiarata dall’abbondanza di fiori e frutti. Sono state riconosciute ben 138 specie di piante diverse, accuratamente descritte da Botticelli servendosi forse di erbari. La cura per i dettagli conferma l’impegno profuso dal maestro in quest’opera, confermato anche dalla perizia tecnica con cui è stata realizzata la stesura pittorica. Realizzata su un supporto di legno di pioppo, l’opera si trovava alla fine del XV secolo nella casa in via Larga (oggi via Cavour) degli eredi di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, cugino di Lorenzo il Magnifico; stava appeso sopra piccolo letto o meglio una sorta di cassapanca con schienale caratteristica dell’arredamento delle residenze signorili rinascimentali. Passò poi nella villa di Castello, dove Giorgio Vasari nel 1550 la descriveva insieme alla Nascita di Venere. Questa secondo capolavoro di Botticelli raffigura più precisamente l’approdo sull’isola di Cipro della dea dell’amore e della bellezza, nata dalla spuma del mare e sospinta dai venti Zefiro e, forse, Aura. La dea è in piedi sopra la valva di una conchiglia, pura e perfetta come una perla. L’accoglie una giovane donna, identificata talvolta con una delle Grazie oppure con l’Ora della primavera, che le porge un manto cosparso di fiori; alla stagione primaverile rimandano anche le rose portate dai venti. Il tema del dipinto, che celebra Venere come simbolo di amore e bellezza, fu forse suggerito dal poeta Agnolo Poliziano. Diversamente dallaPrimaveradipinto su tavola, la Nascita di Venerefu realizzato su tela, un supporto non di rado impiegato nel Quattrocento per pitture decorative destinate alle residenze signorili.
Battesimo del Cristo - Andrea del Verrocchio (Firenze 1435- Venezia 1488) Leonardo da Vinci (Vinci 1452 – Amboise 1519). Sala 35
I fatti rappresentati nel dipinto: sulle rive del fiume Giordano, in Palestina, Gesù riceve il sacramento del battesimo da San Giovanni, che gli terge la testa versando dell’acqua. Il Battista sorregge un’esile croce e un cartiglio iscritto con l’annuncio dell’avvento del Salvatore: ecce agnus dei [qui tollit peccata mundi] (Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo; Vangelo di Giovanni 1, 29). Assistono all’evento due angeli inginocchiati, uno dei quali sorregge la veste di Gesù. Giorgio Vasari, alla metà del XVI secolo, racconta che per l’esecuzione del dipinto Andrea del Verrocchio si avvalse della collaborazione del suo giovane allievo Leonardo, che eseguì con straordinaria maestria la figura dell’angelo di sinistra, tanto da indispettire Verrocchio. Si narra che da questa collaborazione il maestro di Leonardo smise di dipingere, dedicandosi solo alla scultura. Gli studi odierni sono orientati a ritenere che l’intervento di Leonardo sia stato più ampio e che sia intervenuto anche nell’esecuzione del suggestivo paesaggio fluviale, su cui degrada la luce dorata, e della figura di Cristo. Era del resto usuale, nell’organizzazione delle officine artistiche del Quattrocento, che il capo bottega ideasse l’opera, lasciando poi l’esecuzione di parti secondarie ad allievi e collaboratori. E’ probabile che nella tavola col Battesimo di Cristo, oltre a Verrocchio e a Leonardo, abbia lavorato anche un altro pittore, più vecchio, come suggerisce il carattere meno evoluto di alcuni dettagli, quali ad esempio le mani di Dio Padre e la colomba dello Spirito Santo, in alto. L’angelo di Leonardo spicca invece per l’articolata posa del corpo e la straordinaria naturalezza dei panneggi del manto azzurro.
Leonardo Da Vinci, Adorazione dei Magi (1481-1482). Sala 35
Un documento del luglio 1481 attesta che Leonardo da Vinci si impegnava a completare entro 30 mesi la tavola dell’altare maggiore della chiesa di San Donato a Scopeto. Il dipinto aveva come tema l’Adorazione dei Magi, cioè la celebrazione della festa dell’Epifania in cui, secondo Sant’ Agostino, tutti i popoli rispondono alla chiamata di Cristo. Per questo tema Leonardo studiò una composizione molto complessa, ricca di figure, articolata in un semicerchio che ha per fulcro la Vergine col Bambino. Davanti si inginocchiano i Magi, che portano in dono a Gesù oro, incenso e mirra. Leonardo dipinge un fondale in cui s’avvicendano architetture rovinose, scontri di cavalli e cavalieri; a sinistra è raffigurata la costruzione di un edificio, forse un tempio, preceduto da due rampe di scale come il presbiterio di alcune chiese medievali (ad esempio San Miniato al Monte a Firenze). Il tempio, che allude alla pace, si contrappone alla turba di cavalieri in battaglia rappresentata sul lato opposto. Nel settembre del 1481 Leonardo stava ancora lavorando al dipinto, ma pochi mesi più tardi il pittore lasciò Firenze per recarsi a Milano, alla corte di Ludovico il Moro, interrompendo l’esecuzione del dipinto per la chiesa di San Donato a Scopeto. Inutilmente gli agostiniani attesero che il pittore tornasse per ultimare il dipinto, fino a che decisero di affidare l’esecuzione di una nuova pala d’altare a Filippo Lippi ultimata nel 1496. L’Adorazione dei Magi di Leonardo è dunque un dipinto sospeso nella sua esecuzione a un primo livello di abbozzo. Il maestro portò l’elaborazione dell’opera a stadi diversi: alcuni personaggi sono appena delineati, come per fermare un’idea, altri sono più rifiniti. Il cielo è costituito da una stesura a base di bianco di piombo e lapislazzulo.
Michelangelo Buonarroti, Tondo Doni, 1506-1508 circa. Sala 41
Michelangelo dipinse questa Sacra Famiglia per il matrimonio di Agnolo Doni con Maddalena Strozzi. In città in quegli anni si trovavano nello stesso momento Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Furono anni di altissimo fervore culturale e Agnolo poté quindi celebrare le sue nobili nozze e la nascita della sua primogenita con alcune delle massime espressioni di questa eccezionale fioritura: i ritratti dei due coniugi dipinti da Raffaello, e il tondo di Michelangelo, che è l’unico dipinto certo su tavola del maestro. Michelangelo aveva da poco studiato le potenzialità del formato circolare, molto apprezzato nel primo Rinascimento per gli arredi devozionali domestici, nei marmi del Tondo Pitti(Museo Nazionale del Bargello) e del Tondo Taddei(Royal Academy di Londra): in entrambi i casi la Madonna, il Bambino e San Giovannino occupano prepotentemente tutta la superficie del rilievo. Anche il Tondo Doni è concepito come una scultura, in cui la composizione piramidale del gruppo si impone su quasi tutta l’altezza e la larghezza della tavola. Un gruppo compatto che ricorda la struttura di una cupola, animata al suo interno dalle torsioni dei corpi e dalla concatenazione dei gesti per il passaggio delicatissimo del Bambino dalle mani di San Giuseppe a quelle della Vergine. Questa composizione così articolata ed espressiva scaturisce dalla conoscenza e dallo studio da parte di Michelangelo dei grandi marmi del periodo ellenistico (III-I secolo a. C.), contraddistinti da movimenti serpentinati e forte espressività, che stavano emergendo dagli scavi delle ville romane. Alcuni di questi importanti ritrovamenti, come l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte scavato nel gennaio 1506, sono citati puntualmente nel quadro fra le figure di nudi in piedi, appoggiati a una balaustra (rispettivamente a sinistra e a destra di San Giuseppe). La presenza di Laocoonte permette di avanzare per il tondo una datazione che coincide con la nascita di Maria Doni (settembre 1507). I giovani nudi, la cui identificazione è complessa, sembrano rappresentare l’umanità pagana, separata dalla Sacra Famiglia da un basso muretto che rappresenta il peccato originale, oltre il quale c’è anche San Giovannino, che favorirebbe l’interpretazione battesimale del dipinto. La cornice del tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell'intaglio ligneo fiorentino.
Raffaello Sanzio, Madonna del cardellino, 1506 circa. Sala 41
La tavola è stata dipinta durante il soggiorno di Raffaello a Firenze (1504-1508). Nella biografia del pittore Giorgio Vasari riferisce che questo dipinto gli fu commissionato per le nozze di Lorenzo Nasi con Sandra di Matteo Canigiani, celebrate il 23 febbraio 1506. Quando nel 1547 casa Nasi fu travolta da uno smottamento della collina, la tavola si schiantò in diciassette frammenti, raccolti e affidati probabilmente a Michele di Ridolfo del Ghirlandaio per il restauro. Durante gli anni di soggiorno fiorentino Raffaello studiò i grandi maestri della tradizione. Attraverso lo studio delle leggi proporzionali della natura e delle opere del Perugino, di Fra’ Bartolomeo e di Leonardo, Raffaello riuscì a creare immagini di una bellezza ideale, armoniosa e perfetta nella sua semplicità, ma anche vitale e dinamica per l’intenso scambio di sguardi e di gesti che legano le figure e per la varietà aggraziata delle espressioni, rese più naturali dallo sfumato leonardesco, impiegato anche per dissolvere il paesaggio all’orizzonte nell’atmosfera. In quest’immagine così moderna restano tuttavia degli elementi simbolici della tradizione devozionale, come il piccolo testo sacro che tiene in mano la Vergine, segno della sua fede e della prefigurazione del sacrificio di Cristo.
Torso Gaddi, artista ellenistico, II secolo a.C. Verone
Il robusto torso venne acquistato nel 1778 dal Granduca Pietro Leopoldo dalla collezione Gaddi che si trovava a Firenze; nulla si sa dell’opera prima di questa data, ad eccezione della presenza nella suddetta collezione privata. Derivata da un prototipo del II secolo a.C., la statua, di cui si conserva soltanto il torso, raffigurava in origine un Centauro con le mani legate dietro la schiena. Apparteneva a un gruppo composto da un Centauro giovane, libero ed esuberante, ed uno anziano cavalcato da un amorino che lo colpiva con la frusta. Ciò che rimane del torso ci parla di un corpo giovanile e muscoloso, la cui energia sembra essere costretta dai limiti del materiale con il quale venne realizzato; palpabile è lo sforzo nella torsione resa evidente dal modellato. Possiamo tranquillamente interpretarlo come metafora dell’invincibile forza di Eros, capace di domare anche i selvaggi Centauri; simbolo di forza e potenza fu più volte utilizzato come modello per diverse forme artistiche, tra le quali la pittura, in special modo nel periodo a cavallo tra Cinque e Seicento. Ne è vivace testimonianza il raffinato olio su tavola intitolato “Adorazione dei pastori di Amico Aspertini”, datato 1515 e conservato agli Uffizi (Inv. 1890 n. 3803). Nel dipinto il torso è raffigurato all’estremità sinistra, poggiato su una base anch’essa di marmo, molto simile ad un’ara. Una curiosità: a differenza di altre sculture, quest’opera non fu mai completata a recuperare le iniziali sembianze. Era difatti considerata un’opera d’arte così elevata qualitativamente e così potente nel provocare emozioni che si preferì non interferire con la straordinaria forza evocativa del passato.
Michelangelo Merisi da Caravaggio, Testa di Medusa, 1597 ca. Sale di Caravaggio e del Seicento
Lo scudo della Medusa di Caravaggio non è un vero scudo, poiché l’opera era stata commissionata dal Cardinal del Monte (protettore e grande mecenate di Caravaggio) per fare un dono al granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici nel 1598.Tra i due c’era un legame politico, infatti il Cardinale era l’ambasciatore a Roma del granduca e andò ad arricchire la collezione d’armi del granduca. Con tutta probabilità il soggetto della Medusa era particolarmente amato dal granduca, poiché nel primo Cinquecento viene segnalata la presenza, nella sua collezione, di una Medusa dipinta da Leonardo. La Medusa di Caravaggio rimase nella collezione di armi del granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici fino al ‘700, quando tutto il contenuto dell’armeria fu venduto eccetto per quest’opera. La Medusa di Caravaggio è la narrazione di un episodio della mitologia classica e rappresenta una delle tre sorelle Gorgoni, Medusa appunto, a cui fu tagliata di netto la testa da Perseo, prima che il suo sguardo lo trasformasse in pietra. Come tutti gli eroi, Perseo fu astuto e usò uno scudo come specchio affinché Medusa fosse paralizzata dalla sua stessa immagine riflessa. Caravaggio realizza questo capolavoro proprio su uno scudo e l’immagine che vediamo è quella della Medusa mentre incrocia il suo sguardo, lasciando a Perseo la possibilità di sferrare il colpo finale.