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Roberto Cavalli

text Eva Desiderio

15 Aprile 2024

I 40 anni di carriera della Maison di Roberto Cavalli

Lo stilista ripercorre la storia del brand con le sue scelte glamour e con i suoi inconfondibili leitmotiv

I fuochi d’artificio proiettati sulla facciata dell’Ecole des Beaux Arts brillano, come gli occhi di Roberto che alla fine si inumidiscono un po’ per la gioia e la commozione. Il red carpet lo ha emozionato perché alla gran festa per i suoi primi quarant’anni di moda, sono arrivati in tanti per abbracciarlo e ammirare le foto delle donne più belle del mondo ritratte da Met & Marcus per il libro delle celebrazioni, rilegato in cuoio fiorentino. Il segno che rappresenta l’attaccamento di Roberto Cavalli a Firenze, la città dove è nato settant’anni fa, ispiratrice massima della sua creatività insieme alla moglie-musa Eva che lo segue e condivide con lui ogni fase del lavoro per tutte le collezioni, le licenze, gli eventi mondani. E anche lei è soddisfatta di come questi 40 anni di energia modaiola sono arrivati allo zenit proprio a Parigi dove tutto è cominciato nel settembre 1970. “Arrivai ai saloni del pret-à-porter con pochi abiti però con me c’erano due belle modelle, perché a me le donne sono sempre piaciute - racconta Roberto con l’immancabile sigaro in mano - e si scatenò subito il tam tam tra i compratori, tanto che perfino Hermés mi voleva offrire un contratto in esclusiva. Ma io volevo correre la mia avventura da solo, era orgoglioso, fiero di essere fiorentino e di poter lavorare con le antiche tecniche artigiane ed oggi, dopo 40 anni, dico che ho fatto molto bene!”.

Già a Milano durante la fashion week ha dato una prova altissima della sua maestria con una collezione per l’estate 2011 di tutti pezzi unici, abiti di seta e di coccodrillo, borse di pitone, scarpe altissime. Il mondo Cavalli, la sua esuberanza, la cultura per il lusso, ma anche la voglia di non dimenticare mai le radici e gli affetti, è qui nella corte dell’Ecole des Beaux Arts dove spuntano i cipressi del paesaggio fiorentino il giardino di casa che s’affaccia su Firenze. Con lo stilista e la moglie, davanti alla torta alta tre metri, culmine gioioso delle celebrazioni, tutti e cinque i figli: Cristiana, Tommaso, Rachele, Daniele e Robin.

Pochi come Roberto Cavalli hanno capito la filosofia della vita: cogli l’attimo, e goditelo fino in fondo. Macinando idee, stando sempre sul palcoscenico della mondanità ma conservando una intima timidezza, un piacere per la solitudine. Nello studio creativo all’Osmannoro fa scorrere davanti al computer le migliaia di foto che sono la sua ispirazione.

Roberto, dopo la moda sembra che lei sia immerso nella fotografia?

Ho sempre scattato anche prima di diventare stilista. Per me, perché mi piace. La fotografia è una forma d’arte, tutto mi ispira dai fiori, alle nuvole che sono dei geroglifici e penso che Dio ci parli così, attraverso di loro. Quando sono in viaggio con la macchina fotografica mi dimentico di tutto: un jeans, una maglietta e via.

Lei è credente?

Io sono nato cattolico, con gli insegnamenti di mia madre che era una donna straordinaria. Mi ha cresciuto da sola, perché mio padre è stato ucciso in tempo di guerra, e la mia università è stata via Maragliano, a Firenze. Col tempo capisci che non sono discorsi vuoti. Mia madre mi parlava sempre d’amore, quasi fosse una fissazione: mi diceva, se vuoi essere amato devi amare. Credo nel Dio di tutto e ora che non sono più tanto giovane ci parlo tutte le sere, una specie di filo diretto.

Ha paura di morire?

Quand’ero ragazzo avevo paura della morte. Oggi no, non ho paura della vecchiaia e sono curioso di sapere cosa c’è after.

È contento di sé?

Molto. Dio mi ha dato un’intelligenza speciale, sono cresciuto a pane, forza e serietà. E dopo tanti anni di moda adesso mi piacerebbe impegnarmi per gli altri. Ma non sono mica cambiato troppo…mi piacciono sempre le feste e lo champagne, le Ferrari e le belle donne, penso che la vita bisogna berla goccia per goccia. Ma c’è anche chi ha bisogno di noi.

Cosa insegna ai suoi figli?

Dico sempre che bisogna fare tre cose: lavorare, guadagnare, spendere. Un trittico felice da cui non si scappa.

La sua è una famiglia di artisti?

Mio nonno era un ritrattista, un macchiaiolo. Si chiamava Giuseppe Rossi e proprio pochi giorni fa alla Galleria di Arte Moderna di Palazzo Pitti hanno esposto il ritratto che fece a mia nonna, Egle Santolini Rossi, e non vedo l’ora di andare a guardarlo. Mi ha regalato un po’ di vena artistica, nella moda e nelle foto. Il 15 novembre, il giorno del mio settantesimo compleanno inaugurerò una mostra di 400 scatti a Milano, con immagini dalle Galapagos a Las Vegas, alla Cavalli maniera.

Qual è stato il suo primo lavoro prima di diventare famoso?

Stampavo e dipingevo T-shirt. Inventai la stampa su maglieria, era il 1966, e fu un trionfo. Lavoravo in un garage in via Tozzetti a Firenze ma con l’alluvione avevo perso tutto e non avevo un soldo. Nel ’69 mi inventai la stampa sulla pelle: feci boom, la voleva Hermès, feci i soldi e mi comprai un Ferrarino. Nel ’70 arrivai al pret-à-porter a Parigi, tutti volevano da me l’esclusiva della pelle stampata. Ma io dissi: no, me la tengo io!.

Tanti soldi e tante donne…

Ero bellino, non male. Ho imparato l’inglese con le turiste in piazza Signoria, allora si parcheggiava davanti a Rivoire. La mia prima collezione di stampe era orripilante ma era piaciuta agli americani, nel ’71 presentai in Sala Bianca insieme ad Armani, Missoni, Trussardi: io ero il numero uno perché mi ero inventato il jeans coi patch di pelle.

Si ricorda il primo amore?

Certo, si chiamava Robertina e a lei ho dato il primo bacio, avevo 16 anni. Piansi tanto quando mi lasciò, la mamma mi consolava e mi diceva che ne avrei trovata un’altra di innamorata.

E il vero grande amore della sua vita?

Mia moglie Silvana che ho sposato a 22 anni. Lei è la mamma di Cristiana e di Tommaso. Abitava vicino a noi, ci siamo conosciuti sull’autobus 17 quando andavamo a scuola.

Poi è arrivata Eva, che oggi è il suo braccio destro.

Sì, l’ho conosciuta a un concorso di bellezza. Era stupenda, così come oggi. Abbiamo vissuto insieme dieci anni di sogno, dall’ 80 al ’90 quando il mio successo si era un po’ appannato e mi ero ritirato in campagna per via della moda minimalista che allora batteva tutto. In quegli anni sono nati Rachele Daniele e Robin, siamo stati molto felici.

E poi ha deciso di tornare al successo?

Era il 1992, volevo chiudere la ditta, ma non volevo licenziare nessuno. Così mi inventai un filo di lycra dentro le stampe serpente, poi con la carta vetrata invecchiai il tessuto. Era una figata, al Modit dove lo presentai tutti parlavano di me, era il futuro del jeans, prima di allora nessuno avrebbe puntato su Cavalli. E invece eccomi qua: oggi so come manovrare la fortuna, va afferrata quando passa.

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