Giorgio Armani. La sua moda, il suo futuro, la sua forza, la sua Firenze
Il Signore della Moda Italiana in un intimo colloquio tutto da leggere
In questi ultimi mesi ognuno di noi ha provato una sensazione di smarrimento, ci siamo trovati di colpo in un mondo indifeso e inerte. Poi ci sono stati gli ‘esempi’ che ci hanno mostrato la strada da seguire.
Giorgio Armani è uno di questi. È stato il primo in Italia a rendersi conto della gravità della situazione, sfilando a porte chiuse durante la fashion week di febbraio ed è stato anche il primo a chiudere i suoi punti vendita e a far lavorare i dipendenti in smart working per non esporre le persone a inutili rischi.
Ma la visione di Armani è stata anche più ampia. Nel momento del lockdown ha aiutato i nostri medici in prima linea con importanti donazioni alle strutture ospedaliere, non solo di Milano ma anche di Roma, Piacenza (sua città natale), Bergamo, Versilia e ha convertito i propri stabilimenti produttivi italiani nella produzione di camici monouso.
E come se ciò non bastasse ha scritto una lettera aperta, ripresa poi da tutti i giornali del mondo, in cui ci ha indicato come affrontare il futuro: “Questa crisi è una meravigliosa opportunità per rallentare e riallineare tutto; per disegnare un orizzonte più vero”.
Per questo dedichiamo la cover di un numero così importante a Giorgio Armani che ci racconta “la sua necessità di guardare sempre avanti”.
A partire dall’episodio della sua infanzia alla fine della Seconda guerra mondiale, a quale risorsa interiore ha sempre fatto riferimento per superare le difficoltà?
È stata un’infanzia di guerra la mia, in quella Piacenza che scontò sotto i bombardamenti il suo essere in posizione strategica. Alla fine del conflitto furono novantuno le incursioni contate, con decine e decine di vittime. Persi due miei amici nel crollo di una casa bombardata mentre per proteggere mia sorella Rosanna, sempre durante un bombardamento, la buttai a terra e la coprii con il mio corpo. Io stesso rimasi ferito per essermi fermato a guardare alcuni ragazzi che si divertivano a far esplodere della polvere pirica. Piangevo durante le medicazioni, ma non volevo arrendermi. È questo sentimento ostinato di forza, questa volontà di non cedere – istintiva più che ragionata – questa necessità di guardare sempre avanti ad avermi aiutato a superare le difficoltà.
In piena emergenza Covid con una lettera aperta ha denunciato l’insostenibilità della moda che si è piegata ai ritmi del fast fashion. Quale sarà il ruolo della moda?
Penso che la moda avrà la funzione di rigenerare i nostri pensieri. Sarà l’ossigeno creativo che riporterà a ritmi più giusti i tempi dello stile: sfilate per la primavera/estate e per l’autunno/inverno, per rendere l’offerta nei negozi più coerente con la stagionalità. Offrire già in giugno i capi pesanti è una forzatura e soprattutto interessa poco la clientela. Tra i miei obiettivi principali, dunque, c’è anche quello di essere meno frenetico.
In questo periodo di emergenza lei è stato un riferimento e un sostegno concreto non solo per i dipendenti della sua azienda, ma per Milano e in generale per l’Italia. Come ha vissuto questi mesi in prima persona?
Con ansia e, insieme, con energia, sentendo un senso della responsabilità sempre più forte. Non soltanto verso la mia azienda, i miei collaboratori, le persone che fanno parte del mio mondo come gli atleti dell’Olimpia basket, che hanno onorato i valori sportivi e umani nei quali la squadra crede da sempre. Ma anche verso la mia città, Milano, che ha sofferto tanto e il mio Paese, che mi sembra avere bisogno di tutto. Per questo ho cercato di contribuire concretamente con una serie di iniziative, tra cui la conversione delle fabbriche per la produzione dei camici monouso.
Quale vocazione pura e quali stimoli hanno spinto Giorgio Armani a diventare il simbolo della moda italiana?
Di diventare un simbolo non potevo certo immaginarlo né pormelo come obiettivo. Quello che volevo era esprimere con la moda i tempi che cambiavano. Non si trattava semplicemente di un nuovo taglio, di un nuovo gusto del colore, ma di individuare bisogni e accompagnare il cambiamento, l’evoluzione sociale che stava avvenendo. E questo, credo, è quello che faccio anche oggi.
Chi è stata la sua musa?
C’è un tipo di donna - bruna, curiosa, intensa, dallo sguardo profondo - che mi sono accorto di avere scelto per rappresentare lo stile Armani durante tutti gli anni Ottanta. Potrei dire che questa era la donna che mi ispirava e che aveva alcune caratteristiche che mi ricordavano mia madre.
Il Made in Italy di cui lei è il primo ambasciatore non è un fenomeno a sé ma la combinazione perfetta di molti elementi. Quali sono secondo lei gli elementi imprescindibili?
La creatività che mai esclude la portabilità, la qualità dei tessuti, l’attenzione ai metodi di produzione, che devono essere sempre più sostenibili.
L’alto artigianato è sempre stato alla base del suo lavoro. Come possiamo esaltare in futuro questa risorsa tutta italiana?
La particolarità del nostro artigianato è quella di essere l’espressione di una manualità artistica, capace di ottenere risultati più sofisticati realizzando interventi di grandissimo pregio che devono essere rispettati e tutelati. Per me è addirittura indispensabile a dare carattere nell’alta moda, della quale esaltano rarità e bellezza. Posso capire chi, per ragioni economiche, sceglie altro, ma si dovrebbe ricorrere alla bellezza di interventi artigianali ogni volta che questo sia possibile.
L’Italia e i suoi capolavori si riaprono al mondo. L’invito di Giorgio Armani a visitare uno dei Paesi più belli del mondo.
L’Italia è qui che aspetta di essere guardata con occhi nuovi. Sarà possibile individuarne la sua bellezza che sta nella sua complessità e nella sua vitalità. Perché la diversità è vita.
Dalla prima sfilata in Sala Bianca a oggi, qual è Il suo ricordo più bello legato a Firenze?
È una delle mie città del cuore, perché qui ho cominciato, agli inizi degli anni Settanta, sfilando nella Sala Bianca. Erano gli ultimi periodi di splendore, ma questo meraviglioso palazzo e la sua tradizione avevano ancora il potere di intimidire chi era ammesso a sfilare. A Firenze ho anche realizzato le mie prime, importanti collaborazioni. Sono poi tornato agli Uffizi per la Biennale della Moda e ho avuto l’emozione e il piacere di vedere rappresentati la mia vita e il mio lavoro in uno spettacolo di Robert Wilson, G.A. Story. Ma di Firenze ho anche un ricordo speciale, che a volte si confonde con il sogno. O almeno, così mi sembrava. Invece, ritornato in città di recente, mi sono accorto che la cupola del Brunelleschi con quello slancio verso l’infinito, quell’incredibile armonia che sembra sfidare tutte le leggi dell’architettura, è bene impressa nella memoria. Come lo è il cielo senza nuvole, azzurro Rinascimento, bello come un dipinto.