Firenze da scoprire: aneddoti e curiosità che nessuno conosce
Tra le finestre di palazzi, ponti e chiese alla ricerca di storie che stupiscono
Più delle porte, destinate al passaggio di persone e merci, la finestra è stata sempre anche un simbolo. Occhio dell’anima per i pittori, o di sacralità, intesa come luce divina che filtra dalle vetrate gotiche. Con vetri veri come facevano i romani o con tele incerate, come racconta Raffaello nella Madonna dell’impannata. Ma sempre un affaccio sul mondo, o sul divino. A questo deve aver pensato Michelangelo quando Leone X gli fa chiudere le logge del palazzo di famiglia - Palazzo Medici Riccardi - in via Larga. Lui crea delle finestre poggianti su grandi mensole sorrette da due riccioli di pietra. Finestre inginocchiate, le chiama subito Giorgio Vasari con la sua capacità di sintetizzare arte e storia in poche parole. Certo, inginocchiate, come fossero altari.
Con varianti d’ogni tipo. Bernardo Buontalenti, l’eclettico architetto e inventore manierista, quando nel 1568 deve costruire il Casino di San Marco, una sorta di laboratorio alchemico per il suo saturnino committente, il granduca Francesco I, crea sì finestre inginocchiate, ma le anima con scimmie e mostri vari che spuntano da conchiglie. Tutte allusioni all’aspirazione magica di quell’elitaria officina che un tempo era stato il Giardino di San Marco.
E sempre inginocchiati ma enormi, sono i finestroni al piano terra di palazzo Pitti. Si racconta che il pomposo palazzo voluto da Luca Pitti doveva anche avere le finestre più grandi dei portali di palazzo Medici. Difficile da stabilire, visto che questi furono modificati da Michelangelo, mentre a Pitti ci pensarono prima l’Ammannati, poi il Buontalenti e suo nipote Giulio Parigi che amplia il palazzo per ospitare la numerosa famiglia di Cosimo II.
Ma se i Medici allargavano casa a piacimento, non tutti potevano permetterselo. Così quando c’erano bambini si preferiva aprire delle finestrelle, sotto quelle principali per consentire ai piccoli di affacciarsi sulla strada protetti da potenti grate. Oggi ne sono rimaste poche: al numero 8 di via Borgo Santa Croce dove c’è casa Vasari, in via Del Moro, in Borgo San Frediano e poche altre.
E se i bambini potevano sbirciare il mondo dalle grate, ci fu chi non poté farlo mai più. E’ la storia della finestra murata di palazzo Pucci. La potente famiglia, alleata da sempre dei Medici, ebbe una battuta d’arresto nel 1559 quando Pandolfo Pucci, rampollo tanto ricco quanto dissoluto, venne allontanato dalla città per comportamento immorale. Pandolfo decise così di vendicarsi e organizzò una congiura contro Cosimo I. Assoldò un cecchino che proprio da quella finestra d’angolo, avrebbe dovuto colpire con una fucilata il duca quando passava per andare alla Chiesa della Santissima Annunziata. Il complotto fu svelato prima del tempo e Pandolfo finì impiccato e lasciato penzolare dal Bargello, mentre la finestra della congiura fu murata e mai più riaperta, la stessa che ancora oggi noi vediamo murata all’angolo fra via de’ Pucci e via de’ Servi.
Non è stata mai chiusa invece quella di palazzo Budini-Gattai (un tempo Grifoni), l’ultima del primo piano a destra, in piazza Santissima Annunziata. Si racconta che la devota moglie di un Grifoni, partito in battaglia avesse giurato di attenderlo affacciata da quella finestra. Lui muore, ma lei non demorde e tutte le volte che qualcuno ha tentato di chiuderla fulmini e turbinii hanno sconvolto il palazzo. Così è rimasta aperta. Per sempre.
E volle entrare nella storia Jacopo Grifoni, segretario di Cosimo I, quando nel 1574 fece costruire da Baccio d’Agnolo l’elegante palazzo con le finestre centrali a serliana (elemento architettonico composto da un arco a tutto sesto affiancato simmetricamente da due aperture sormontate da un architrave, a mo’ di lettera omega stilizzata) con arco e colonne che includono, verso la chiesa i simboli e lo stemma dei Grifoni e dall’altra su via dei Servi, il tributo a Cosimo col capricorno e la tartaruga con la vela, emblema del suo motto famoso Festina lente, affrettati ma con prudenza. Un palazzo di mattoni, il Budini-Gattai, che fece un po’ scalpore, ma non certo come quello dei Bartolini Salimbeni in piazza Santa Trinita.
L’incarico fu dato sempre al bravo, Baccio d’Agnolo (ma inviso ai fiorentini) che creò delle finestre (dette poi guelfe) divise in quattro sezioni, arricchite da nicchie, un fregio con tre semi di papavero e il motto di famiglia per non dormire. A questo proposito si racconta che questa famiglia di astuti mercanti, una notte, in porto, in attesa dell’arrivo delle navi, invitassero a cena i loro concorrenti a cui, alla fine, versarono dell’oppio. Così la mattina dopo mentre quelli dormivano, loro scelsero le merci migliori. Leggenda? Forse, ma di messaggi sublimali la facciata è piena. Anche Baccio d’Angolo scrisse la sua: più facile criticare che fare forse un monito. Troppo romano quel palazzo per i compassati fiorentini. Che avevano in mente la sobrietà di palazzo Rucellai. Costruito da Bernardo Rossellino a metà ‘400 su progetto di Leon Battista Alberti. Bugnato piatto e bifore. L’Alberti toglie l’ogiva alla bifora gotica e la trasforma in un gioco di archi a tutto tondo concentrici, che vengono contenuti tra paraste e capitelli dei vari ordini. Unisce l’antichità romana con la ricerca rinascimentale che lui stava avviando. Il risultato è l’armonia perfetta.
Non si può dire la stessa cosa guardando invece i tre finestroni del Ponte Vecchio verso ovest. E benché la leggenda popolare li voglia creati apposta per Hitler, va detto che l’apertura fu invece fatta per Vittorio Emanuele II all’indomani del plebiscito del 1859, con cui la Toscana aderì al nascente regno d’Italia. Fino ad allora, chi attraversava il Corridoio Vasariano poteva scrutare Firenze soltanto attraverso le 73 finestre di dimensioni contenute (dunque non panoramiche) che forano da entrambi i lati il Vasariano ad altezza d’uomo: più grandi le quadrate orientate lato fiume, più piccole le rotonde orientate sulla strada e sul camminamento di Ponte Vecchio, chiuse da inferriate; quest’ultime, si dice che fossero usate, in epoca medicea, dal Gran Duca e dalla sua cerchia di cortigiani per spiare i fiorentini senza essere visti.
Un’altra curiosità - che torneremo presto a vedere quando il Corridoio Vasariano verrà riaperto - è che a un certo punto, al suo interno c’è una finestra tonda con grate di ferro e un balcone posto nella controfacciata della Chiesa di Santa Felicita. Da qui i Medici assistevano alla messa, potendo contare su di una postazione privata e privilegiata, che consentiva loro di non correre pericoli mischiandosi con la gente comune.
Tutto si sarebbe immaginato, invece, Arnolfo di Cambio, che la chiusura delle sue meravigliose bifore. Alte e strette, dei veri ricami. Ma Santa Maria del Fiore fu ampliata nel corso del Trecento e quelle tre finestre per lato erano ormai superate. Oggi, infatti, sono visibili solo dall’esterno.
E doveva essere proprio assetato di luce lo Strozzi che nel ‘700 fece costruire davanti Santa Maria Maggiore, il palazzo del Centauro, così chiamato per la statua del Giambologna che era lì, al Canto dei Carnesecchi, dietro il cupo Ghetto. Oggi il palazzone è più noto come il palazzo delle 100 finestre. Al posto delle finestre inginocchiate ci sono le vetrine e l’edificio ha perso di originalità, ma le finestre restano, poco meno di cento.