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Daniel Day Lewis

Giovanni Bogani

1 Aprile 2008

Daniel Day-Lewis. L’ultimo dandy

A pochi giorni prima dell’Oscar, racconta del suo buen retiro a Firenze

Quando lo abbiamo incontrato a Berlino, pochi giorni prima dell’Oscar, era molto diverso da un paio di anni fa quando aveva appena presentato, sempre a Berlino, La ballata di Jack e Rose; film realizzato insieme alla moglie Rebecca Miller.

Allora aveva una barba immensa, un orecchino, capelli lunghi, pantaloni marroni vecchio stile e una maglietta rossa. Si sarebbe scambito per uno dei barboni che camminano lenti per Hollywood Boulevard, con il loro carrello della spesa pieno di cianfrusaglie.
E invece, quello che avevamo davanti era già uno dei più grandi attori della sua generazione. Uno che abita i suoi personaggi, che vive nella loro pelle. Capace di tirare pugni per sei mesi, per interpretare un film sulla boxe e di non vedere neanche la propria moglie, durante l’interpretazione di un personaggio reclusive. Stiamo parlando di Daniel Day-Lewis.

Adesso è al suo secondo Oscar, per There Will Be Blood, in Italia Il petroliere, film diretto da Paul Thomas Anderson, ma che deve moltissimo alla sua interpretazione perfetta, feroce, di uomo selvaggio, bestiale, ferito, incapace di trovare pace con se stesso e con gli altri.
Adesso che ha vinto di nuovo (primo Oscar per Il mio piede sinistro, ndr) sembra che tutto sia stato facile. Ma non tutti ricordano di quando, per ritrovare se stesso, frastornato da un mestiere troppo pieno di tensioni e di occasioni da perdere la testa e la misura, aveva scelto di rifugiarsi proprio a Firenze.

“Forse non è insolito per un attore essere stranamente antisociale”, ci ha detto a Berlino, io sento, d’istinto, quando devo andarmene da tutta quella frenesia”. Così dopo The Boxer, anno 1997, Daniel si ritira dal mondo del cinema e inizia un periodo di cinque anni lontano dal set.

“C’è stato un periodo, alcuni anni fa, in cui semplicemente sentivo di voler fare altre cose. Mi è successo spesso, nel corso degli anni, di prendermi dei periodi di pausa dalla recitazione”. E per questa pausa, che poteva non essere solo una pausa ma la fine della sua carriera, sceglie Firenze.

A Firenze, Daniel Day-Lewis c’era stato, per diverse settimane ai tempi del suo primo film importante, Camera con vista, regia di James Ivory, anno 1985. Firenze trasformata in un set ottocentesco, ragazze che passeggiano con l’ombrellino da sole in piazza Signoria. Non furono soltanto i personaggi a innamorarsi di Firenze, accadde anche agli attori.

Quell’amore doveva sprigionarsi prepotente, quindici anni dopo. Il suo calzolaio di fiducia manda Daniel a Firenze, per la prova di una scarpa. Lì, Daniel incontra Stefano Bemer, non un calzolaio qualunque. Un artigiano che fa scarpe su misura, che usa solo materiali pregiati, ogni piede un disegno, con tutta la calma e tutto il tempo necessari. Scarpe praticamente eterne.

Qualcosa scatta nella mente di Daniel. L’aver compreso che la cura nel fare il proprio lavoro diviene qualcosa di simile a un’arte, quasi un esercizio di una pratica spirituale. Qualcosa che nobilita. Un lavoro a cui dedicarsi con la perizia, l’attenzione, la competenza di un artista. Qualcosa che probabilmente a Hollywood, dove il business è Dio, non trova più.

Così Daniel chiede a Stefano Bemer di insegnargli come si fa. Probabilmente non come si fa una scarpa. Ma come si fa a dedicarsi con pazienza, con cura, con ostinazione al proprio lavoro. Credo sia entrato nel laboratorio di Bemer come si entra in un monastero buddista. E come un monaco buddista, c’è rimasto. Senza vedere gente. In una stanza segreta, apprendista stregone, lontano dai giornali, dai fotografi, dalle televisioni.
“Sono sempre stato bravo a usare le mani per lavorare”, dice con un certo orgoglio. Sa anche lavorare il legno, come il suo collega Harrison Ford.

E comincia il suo apprendistato con le mani. Il negozio è in San Frediano, nel cuore della Firenze più vecchia e più vera, la Firenze artigiana, quella dei piccoli corniciai, degli argentieri, dei pellettieri, dei rigattieri, degli antiquari: delle botteghe. Lui prende casa in Santo Spirito, nella rive gauche fiorentina degli artisti e dei meno ricchi. Abita a Firenze con la moglie Rebecca e il figlio di un anno. Poi arriva il momento dell’asilo, e sarà lui a portarcelo.

C’è chi lo vede in un negozio di articoli sportivi, infagottato in cappotti e maglioni che sono tutto, fuorché da divo. C’è chi lo vede prendere tempura e sashimi in un ristorante giapponese lì vicino. Ma sono in pochi quelli che lo vedono. Hollywood gli fa arrivare le proposte più interessanti. Viene chiamato per Lord of the Rings e per il Solaris del genietto Soderbergh. Rinuncia, in quei casi e in altri ancora.

Un giorno sbarca a Firenze Martin Scorsese. Gli parla. Gli chiede di partecipare al suo prossimo film. Si tratta di Gangs of New York e lui, Daniel, sarà The Butcher, il macellaio. Un ruolo violentissimo. A cui, poi, darà una intensità, una ferocia mai viste. E addio a Firenze, alla bottega di calzolaio dove forse ha imparato più di ogni altra cosa, ha imparato a ritrovare se stesso.

“Il lavoro dell’attore è strano: prima passi il tempo a imparare. Poi giri un film, un altro, un altro, e alla fine sei cibo per cani. Ti senti esaurito, senti di aver dato tutto senza avere imparato niente”, ci ha detto. Però, è difficile capirlo. Perché fermarsi vuol dire rinunciare a tanti soldi e rinunciare al successo. Ci vuole tanta forza per fermarsi. Per far si , in qualche modo, che gli altri ci dimentichino.

Chissà se c’entrava, nella sua scelta, anche il fatto che le scarpe di Bemer fossero praticamente eterne. “Ho un paio di stivali che erano appartenuti a mio padre. - dice Daniel - Con quegli stivali, lui ha girato gli Stati Uniti per sei/otto mesi, quando io ero piccolo. Tornò con un disco, The Freewhelin, di Bob Dylan e quegli stivali, che sembravano proprio quelli che Dylan ha nella copertina dell’album. Mio padre aveva sessant’anni, allora. Eppure mi disse: “Ascolta quel tipo. E’ un vero poeta”.
“Quando mio padre morì - prosegue Daniel - ho cominciato a portare quegli stivali, fino a consumarli. E quando non si sono più potuti riparare, mi si è spezzato il cuore”. Forse è anche per questo che ha imparato, a Firenze, a fare scarpe eterne.  

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