Le buchette del vino di Firenze
La storia delle piccole finestre sulle facciate dei palazzi che vendevano vino
Qualcuna è diventata un'aristocratica cassetta della posta, con la sua graziosa finitura in pietra serena, e la fessura pronta a inghiottire i segreti di carta. Un'altra si è velocemente attualizzata, divenendo una comoda buchetta per gelato take-away, come quella della Gelateria Vivoli.
Altre invece, se ne possono vedere un paio ben realizzate in via dei Geppi e in via Sant’Agostino, oggi ospitano i campanelli con le targhette e i nomi degli abitanti di quella dimora, che magari un tempo appartenne a un unico casato, e poi vicissitudini alterne hanno suggerito piuttosto di frazionare e vendere in tanti appartamenti. In qualcun’altra ha vinto la pia devozione, e lo sportellino è ornato da pitture più o meno artisticamente pregiate, a raffigurare magari una tenera Natività.
Per la maggior parte sono state accecate, murate, pur conservando il profilo sulla parete che le ospita, sia essa lisciata a intonaco o impreziosita dalle pietre a bugnato. Poi ci sono quelle “filologiche”. Poche, a dire il vero, ma fedelissime all’origine, e finalmente capaci di spiegare l’origine di quei piccoli tabernacoli, quelle aperture spesso anche ben decorate che occhieggiano su tanti palazzi di Firenze. Fermatevi, per esempio, davanti al Palazzo Capponi, poco distante dal Ponte Vecchio, tra via de’ Bardi e la piazza Santa Maria in Soprarno: sopra lo sportellino, leggerete “cantina Capponi”. Iscrizione non originale, certo, ma eloquente.
E ancor più eloquente, ancora in via de’ Bardi, la piccola lapide che ne circonda un’altra, di queste porticine, e recita: “Cantina – Sta aperta dalle 9 alle 5”. Di più, molto di più raccontano due grandi lapidi che ornano le facciate di Palazzo Viviani in via delle Belle Donne e di Palazzo Bartolini Salimbeni in via del Giglio. Qui, sopra a quella che forse è la “porticina” più graziosa di tutta la città, c’è scritto chiaro “Vendita di vino”; accanto, su una lapide di marmo, gli orari di tutto l’anno, con le differenze tra estate e interno, di apertura dell’esercizio.
Buchette del vino. Il Latini, oste antico e gran dispensiere di rosso delle campagne, ne ha un paio vicino all’ingresso dell’Antica Fiaschetteria – sì, merita le maiuscole – di via de’ Palchetti, ha pensato bene di perpetuare il ricordo con un paio di classici “gottini” piazzati lì sul davanzalino davanti allo sportello. Bicchieri che, ahimé, scopro di origini piemontesi, ma che inquadrano di sicuro l’antica propensione al vino dei fiorentini. Già. Bevi il vino, e lascia andar l’acqua al mulino. Lo dicevano i nonni, e i nonni dei nonni, tanto mordaci da sentenziare: quel che con l’acqua mischia il vino, merita di bere il mare a capo chino. Già, perché il rosso profumato e vivace, “spumeggiante nel bicchiere scintillante”, come lo cantò Mascagni, fin dai tempi dei tempi (perché così avrebbe detto il nonno) era compagno di vita quotidiana. Per festeggiare, per darsi un tono.
Ma era alimento: ancora dalla saggezza antica, “non ti mettere in cammino, se la bocca non sa di vino”. Adagio che s’adatta al colto e all’inclita, al popolino e all’aristocrazia. E ottimo spot a pronta presa per quello che da sempre è comunque anche un prodotto di economia e di commercio, appunto il vino. Fiorini d’oro a fiumi, per quello che non era soltanto uno status symbol nei banchetti delle corti e dei palazzi nobiliari, ma vera fonte di guadagno e sopravvivenza per tanta gente.
Quando Firenze cominciò a diventare la capitale del mondo, fra il Duecento e il Trecento, non si prosperava solo sulle stoffe e sul lino, anzi, con l’aprirsi dei commerci alle grandi spietate concorrenze ci fu necessità già allora di diversificare, e la terra conquistò un ruolo di primo piano. Il Villani, gran cronista, racconta la quantità di vino che nel ‘300 era entrata a Firenze: Il vino entrato a Firenze era di circa 55/60.000 cogne (equivalente a 450 litri), e circa 90 vinattieri lo rivendevano esercitando mescita al minuto in celle e fondachi raggruppati specialmente in Oltrarno e presso il Duomo. Nel 1569 secondo la relazione del commissario fiorentino Giovan Battista Tedaldi, il territorio produceva circa 215.000 barili vino l’anno, equivalenti a 85.000 ettolitri, dei quali il 30% veniva regolarmente esportato a Prato e Firenze.
Una crescita esponenziale, dunque. A quei secoli risalgono le “buchette” aperte sulle facciate dei palazzi fiorentini. Un bel libro pubblicato qualche anno fa da Semper Editrice, “Le buchette del vino a Firenze” di Lidia Casini Brogelli, ne conta all’incirca ottanta, in giro per la città, più o meno belle, artistiche, in pietra pregiata o addirittura ben definite e tagliate nelle pietre stesse, e oggi destinate, come s’accennava, a tanti usi.
Ma all’origine, appunto, buchette del vino. Il “passaggio” dei “toscanelli”, le fiaschette tipiche in vetro rivestito da erbe palustri come la “sala” e il “rascello” che si coglievano per lo più dalle parti di Empoli, direttamente dal produttore/venditore al consumatore, senza l’intermediazione delle “celle”, delle osterie.
Concentrate in luoghi particolari della città – la zona di Santa Croce, i palazzi di via Torta dove un tempo sorgeva l’Anfiteatro Romano, le strade a maggiore densità di commercio e di traffici d’ogni genere – ma anche seminate lungo le vie di accesso e uscita dalla città, “non ti mettere in cammino...”. Create dalle grandi griffe del vino, certo: la più blasonata è sicuramente quella che si affaccia sul Palazzo Ricasoli Firidolfi, in via Maggio. Punto vendita, insomma, lo testimoniano proprio quelle lapidi di cui già s’è detto.
Ma non solo: anche luogo di “misericordia corporale”, veicolo per la silenziosa offerta d’una caraffa di vino ai bisognosi, lungo un cammino difficile, d’altra parte è proprio il buon vescovo Martino il santo protettore dei Vinattieri. Grandi peccatori, grandi cattedrali, di solito. Ma a volte, a pulirsi l’anima, è sufficiente un gotto di vino. E senza farti vedere in faccia.