Alice Rohrwacher si racconta, dagli oscar al suo legame con Firenze
La nostra intervista alla nota regista nata a Fiesole
“È stata una soddisfazione andare a Los Angeles come rappresentante delle tante donne che hanno lavorato a Le Pupille (prodotto da Alfonso Cuaròn per Disney original, ndr.). C’era mio padre Reinhard con me, e nessuno di noi due avrebbe mai immaginato prima di fare questo viaggio!”. Incontriamo Alice Rohrwacher reduce dalla notte degli Oscar per parlare della sua carriera che è un tutt’uno con la sua passione per il cinema, condivisa - anche se su piani diversi con la sorella Alba, attrice. Alba e Alice sono nate a Fiesole, vicino Firenze, da padre tedesco e madre italiana. Hanno vissuto l’infanzia e l’adolescenza tra Firenze e l’Umbria, luogo di origine della madre e luogo di lavoro del padre, apicoltore. Sono cresciute fra gli artigiani di Firenze, i suoi mille musei e la campagna umbra.
Un film nato da una lettera. Quando e grazie a che cosa si è messo in moto l’ingranaggio perfetto?
Quando Cuarón mi ha chiesto di fare un film sul Natale, subito ho pensato a una lettera di Elsa Morante a Goffredo Fofi, per me due grandi maestri. Che cosa distingue un racconto di Natale da uno normale? Probabilmente avere una morale. E la morale che Elsa mette nella lettera è fantasiosa e sfacciata, ed è valida ancora oggi: le vie del destino sono infinite. E se la torta deve finire ai bisognosi, a chi veramente la desidera, il destino ce la porterà.
Ad Alba ha affidato un ruolo duro e severissimo, diverso da sempre. Perché?
Mi piaceva lavorare con lei su un personaggio molto diverso da tutti quelli che avevamo già affrontato insieme, quello della madre superiora. Ed è stata davvero sorprendente!
Il momento più intenso o più liberatorio e spassoso durante le riprese?
Quando, alla fine, abbiamo mangiato la torta!
Che legame le è rimasto con la terra dove è nata?
Firenze è una città molto importante nella mia immaginazione e nella mia vita. A Firenze hanno vissuto i miei genitori Annalisa e Reinhard, è nata mia sorella Alba e ancora vive mia zia Mara. Fin da piccola era la città di riferimento per la nostra famiglia, la prima città in cui sono andata da sola con il treno per visitare i musei, la prima città in cui sono andata al cinema.
E oggi?
Quando vado a Firenze passo sotto la casa dove abitava la mia famiglia e cerco di sbirciare dalle finestre; è sempre impressionante vedere come la vita si rinnovi e cambi nei luoghi che ci sono cari. Loro abitavano in via Santa Reparata all’angolo con via delle Ruote e da lì poi hanno deciso di abbandonare la città e cercare in campagna la via di un cambiamento personale e politico, perché queste due sfere per loro hanno sempre coinciso.Credo che la Firenze che hanno vissuto i miei genitori, quella dei movimenti studenteschi, delle lotte politiche e delle scelte di vita, ora non esista più. Eppure ancora oggi quando ci vado ne sento l’eco e la nostalgia. E sono sicura che dietro alle vetrine, la Firenze verace ancora resiste e si stia trasformando e rinnovando come è giusto che sia.
Se le chiedessero di girare un documentario su Firenze quale capolavoro entrerebbe per primo?
I Prigioni di Michelangelo. Sono sculture che mi hanno sempre impressionato, e influenzato anche nel mio lavoro. Mentre faccio un film, penso spesso a questa immagine, una scultura che esce fuori dal marmo, qualcosa che l’artista aiuta a fare venire alla luce, non qualcosa da creare dal nulla, ma qualcosa da far fiorire.
Qual è il posto a Firenze dove ogni volta che ci va riesce a sentirsi in stato di grazia?
Lungo l’Arno. Camminare lungo i fiumi soprattutto in città è sempre una mia passione. E poi la serra del Giardino dell’Orticultura dove mi portava mia zia Mara. Lì ho anche scritto uno dei primi racconti della mia vita, che parlava di lei e di quel luogo. Ma credo sia andato perso come tante altre cose!
Due sorelle, due grandi figure del cinema italiano contemporaneo. Qual è stato l’input dei vostri genitori per la vostra carriera?
L’impegno. Potevamo fare tutto, ma dovevamo avere una motivazione. Ci hanno sempre fatto capire che non c’è separazione tra vita e lavoro e che qualsiasi cosa avremmo fatto nella nostra vita, avrebbe dovuto riempire la nostra esistenza, non era solo un lavoro ma uno strumento di ricerca. Per me il cinema è questa possibilità, di capire meglio l’umano, di interrogarmi sui legami tra le cose e i legami tra il visibile e l’invisibile.
I suoi prossimi progetti importanti?
Sto finendo il film La Chimera, un viaggio nelle sconsiderate avventure di una banda di tombaroli all’inizio degli anni ‘80: un modo di raccontare il legame di un territorio col suo passato e soprattutto con gli etruschi. Ma anche un film ironico e vitale in parte girato in Toscana.
Il suo motto?
È una frase che mi ripeto spesso e che veniva recitata dall’attrice (toscanissima!) Silvia Frasson in uno spettacolo che abbiamo fatto insieme (io come fisarmonicista in scena) sulla vita di Giovanna d’Arco. Per molti anni abbiamo portato questo piccolo spettacolo per i piccoli paesini della Toscana. Era un monologo molto bello, e io stavo sul palco per intervenire in alcuni momenti con la musica. Ad un certo punto della storia Giovanna d’Arco ha paura, non sa che fare, e Silvia diceva: “Bene, un passo avanti.” Anche a me capita ancora di dirmi: “ho paura… Bene, un passo avanti.”