Alfonso Cuarón. La mia vita a Pietrasanta
Il regista premio Oscar 2019, racconta il suo cinema e la sua Toscana
C’è molta Italia, anzi c’è molta Toscana, nella vita di Alfonso Cuarón, oggi uno dei registi più famosi, amati, rispettati nel mondo. Dopo aver vinto l’ultima Mostra del cinema di Venezia con Roma, bellissimo film nel quale rievoca la sua infanzia in Messico, Cuarón si aggiudica, per la stessa pellicola, anche il premio Oscar come Miglior regista, Miglior fotografia e Miglior film straniero.
Di Pietrasanta Cuarón è cittadino onorario. A Pietrasanta Cuarón ha famiglia, casa, amici e alcuni dei luoghi più cari, più segreti, nei quali scrivere i suoi film. È qui, nella sua casa italiana, che Cuarón ha ultimato il montaggio di Roma con il quale ha trionfato a Venezia e vinto 3 statuette agli Oscar del 2019. Da sette anni i ritmi della sua vita sono ritmi italiani. Da quando è venuto a vivere a Pietrasanta, seguendo la ex moglie Annalisa Bugliani. C’è chi lo incontra davanti alle scuole in attesa dei due figli, Tess e Olmo, o seduto al bar in piazza del Duomo, mentre legge giornali o studia la prossima sceneggiatura.
Cuarón a Pietrasanta ha una casa, adesso in ristrutturazione, nella frazione di Vallecchia. Così ha preso in affitto un appartamento nel cuore del centro storico della cittadina apuana. Non ama fare vita mondana: ma ogni tanto lo possiamo trovare al ristorante Il Posto, o all’Enoteca di Michele Marcucci.
Pochi giorni dopo il Leone vinto a Venezia, Cuarón si è anche affacciato sul mare della Versilia, sul pontile di Tonfano, 380 metri di passeggiata che corrono fin dentro il mare, per festeggiare il decennale della realizzazione del pontile, insieme ad altre ventimila persone. Con lui il senatore Massimo Mallegni, ex sindaco di Pietrasanta e ideatore del progetto, e l’attuale primo cittadino Alberto Giovannetti. Nell’occasione, Cuarón ha ricevuto uno speciale riconoscimento in bronzo, realizzato dalle fonderie pietrasantine.
Come vive il suo rapporto con la Toscana, Cuarón?
Benissimo. È un posto meraviglioso, tranquillo, dove cerco di realizzare la mia aspirazione più grande, quella alla normalità.
Sarebbe mai possibile per lei ambientare un film in Toscana?
È un’ipotesi che non scarterei. Mi permetterebbe di stare vicino alla mia famiglia e di lavorare in un ambiente bellissimo e sereno.
A Pietrasanta ha anche trovato un vecchio amico…
Sì, e nel modo più incredibile: dopo trent’anni, l’ho incontrato a Pietrasanta al supermercato, davanti agli scaffali della passata di pomodori. È l’artista Gustavo Achevesche, un bravissimo artista, e un mio vecchio amico.
Lei è uno dei più grandi registi del mondo, ma sembra sempre ricercare la semplicità. Non si atteggia mai a divo.
Per me il cinema è stato prima di tutto un modo per sopravvivere, per mangiare. Nel Messico degli anni ’80, dove sono cresciuto, di lavoro ce n’era pochissimo. E io ho fatto sempre di tutto: l’operatore, l’aiuto regista… Non volevo per forza essere il numero uno. Mi sono sempre ritenuto un impiegato del cinema. E non sono un genio: non sono riuscito a finire né l’università di Filosofia, né l’accademia del cinema!
Il Messico ha prodotto i tre più importanti registi degli ultimi anni: Alejandro Inarritu, Guillermo del Toro e lei. Come è stato possibile tutto questo?
Non lo so: ma so che voglio molto bene a tutti e due i miei colleghi. A Guillermo, che mi ha detto che il mio primo cortometraggio era brutto, e a Alejandro, al quale ho detto che il suo primo corto era brutto! - ride -. Ci siamo conosciuti da ragazzi, ci siamo amati e scontrati: forse questo ci ha fatto crescere.
Chi sente come suoi maestri, nel cinema mondiale?
Ho amato moltissimo Martin Scorsese, e tutta la Nouvelle vague. Ma in generale amo tutto il cinema. Un giorno mi prese la voglia di imparare tutto sui grandi piani sequenza: mi misi in una stanza, da solo, con le cassette dei film di Orson Welles e di Miklos Jàncso. Ne uscii soltanto dopo una settimana. Per me il cinema è stato così: un tuffo totale, un’immersione nella sua magia.
In Roma lei ha raccontato la sua infanzia, sullo sfondo di un Messico tormentato dallo scontro sociale. Perché ha affrontato questo viaggio nel tempo?
Forse perché sono vecchio! Volevo raccontare alcune cicatrici personali, e alcune cicatrici collettive, del popolo messicano. Per farlo, avevo in mente alcuni grandi autori del cinema italiano.
Quali?
Ettore Scola, i fratelli Taviani, Pasolini, Rossellini; non ci ho pensato razionalmente, secondo un progetto. Ma il loro cinema sta dentro il mio sangue, così come forse nel mio sangue adesso c’è un po’ di Italia, e soprattutto un po’ di Toscana.