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vini rossi toscana

text Simone Lo Guercio
(Italy’s Best Sommelier 2018)
Sommelier Toscana

10 Febbraio 2020

I 13 grandi vini toscani che non puoi non conoscere

Le etichette che hanno scritto la storia del vino toscano. Storie di coraggio, lungimiranza e… un po’ di follia

Colline ondulate, che sembrano disegnate col compasso, lembi di pianura costiera, ampie vallate, le Alpi Apuane, con le famose cave di marmo, che nascondono e svelano il mare, bacini intermontani in passato lacustri, la Lunigiana, la Garfagnana e il Mugello, e l’Appenino con i suoi rilievi, dal Pratomagno ai Monti del Chianti fino al Monte Amiata, ultimo baluardo montuoso verso il mare, a Sud… 

Il paesaggio della Toscana è tra i più vari e queste caratteristiche si riflettono anche sui vini. Non si ha l’idea di una specializzazione, ma di un’agricoltura che trova nella diversità il suo punto di forza. E dalla Maremma alla Val d’Orcia, dai terreni di Bolgheri alle Colline del Chianti, cambia il clima e cambiano i terreniargillosi in un punto e vulcanici in un altro, galestro e poi sabbie, alberese ed arenarie

Il territorio toscano costellato da eccellenti vitigni

La Toscana è un esempio di eccellenza, dove convivono piccole aziende a conduzione familiare e grandi cantineLa produzione dei vini è soprattutto focalizzata sui rossi, tra cui regna sovrano il Sangiovese assieme ai suoi vari cloni. “Il primo compito di un vino è quello di essere rosso, poi viene tutto il resto”. Così recitava un proverbio francese dei primi anni del XIX secolo. Proverbio di cui la Toscana ha tutti i diritti per appropriarsene, perché terra di grandi rossi, vini unici, che vanno spesso oltre l’eccellenza, il cui fascino è intramontabile, tanto da entrare di diritto nel gotha dei grandi vini internazionali. Non c’è enoteca in Italia che non abbia in bella mostra grandi etichette toscane, ma la loro presenza è una costante anche nelle principali carte dei vini del mondo intero. 

1. Il Brunello di Montalcino Biondi Santi. La tradizione del Sangiovese

Il primo grande vino toscano in senso moderno risale alla fine del secolo XIX e si deve all’attività controcorrente eppur lungimirante di Ferruccio Biondi Santi, il padre del Brunello di Montalcino, il quale intuì che un’adeguata coltivazione e vinificazione del sangiovese avrebbe potuto realizzare un vino strutturato e longevo. Sviluppò il progetto di questo vino nella tenuta di famiglia Il Greppo, che si trova nella parte alta della collina di Montalcino. Selezionò le piante di una varietà di sangiovese individuata come la migliore, ovvero il sangiovese grosso o brunello, e le riprodusse in un vigneto, che coltivò con una resa di uva più bassa di quanto fosse la prassi, pensando fin dall’inizio al massimo della qualità invece che della quantità; contrariamente alla prassi vinificò queste uve con una macerazione lunga e mantenne il vino ottenuto per molto tempo in botti di legno. L’obiettivo di fondo non era un vino da consumare o vendere in pochi mesi, al contrario aveva in mente un vino che potesse evolvere negli anni per competere con i grandi Château di Bordeaux. Vi riuscì e da allora il Brunello di Biondi Santi non ha mai cessato di rappresentare un’eccellenza del territorio di Montalcino e dell’enologia italiana. A partire dal 1888 e solo nelle annate migliori e dalle piante più vecchie viene prodotto il Brunello di Montalcino Riserva della Tenuta Il Greppo di Biondi Santi, che con l’annata 1955 è entrato come unico vino italiano nella classifica dei 12 vini del XX secolo, redatta dalla rivista “Wine Spectator”. Nel calice si mostra di una tonalità di rosso rubino penetrata dalla luce, che col tempo vira verso il granata fino ad assumere preziose sfumature aranciate. I suoi profumi sono signorili e concentrati: spesso debuttano scorza d’arancio e ciliegia, fuoriescono nel prosieguo intense fragranze speziate e di petali di viola appassita insieme a sigaro e sottobosco, può ricordare anche carne e cuoio. Impressiona il palato con una trama raffinata e distesa grazie alla maestria di tannini perfetti, che mantengono a lungo la loro energia e creano lo spazio gustativo per un’interminabile progressione fruttata e sapida. 

2. Sassicaia. Fenomeno Bolgheri

È relativamente recente il boom dei vini della Costa Toscana ed è stato il Sassicaia, in commercio dal 1972, annata 1968, a fungere da apripista di uno progresso enologico incredibile delle province costiere della regione. Quella che diventerà l’etichetta più rinomata della Toscana nacque come vino di casa da un terreno che Mario Incisa della Rocchetta, piemontese di origine, ebbe come dote di nozze; ma per 20 anni fu solo un vino familiare, da regalare agli amici, senza sbocco commerciale. Il Marchese Incisa della Rocchetta, amante dei cavalli e dei grandi vini francesi, aveva deciso di piantare cabernet sauvignon nel 1944, con in mente i vini di Bordeaux. Il suo vino all’inizio non piacque a nessuno, era un vino innovativo, lontano dal gusto locale, e restò anonimo per 20 anni, finché col supporto del cognato, Niccolò Antinori, e dell’enologo Giacomo Tachis consulente degli Antinori, il vino venne messo in commercio. Con le annate 1980, 1981 e poi 1985 riscosse un enorme successo mondiale, la cui portata non si è ancora esaurita. Il Sassicaia ha innescato una reazione a catena della zona e di tutta la regione, restando tuttavia etichettato a lungo come vino da tavola, perché la prima DOC Bolgheri del 1983 contemplava soltanto sangiovese e trebbiano; solo con la revisione del disciplinare del 1994 diventò DOC. Il Bolgheri Sassicaia è ottenuto da Cabernet Sauvignon per l’85% e da Cabernet Franc, matura per due anni in barrique, per un terzo nuove ogni anno. Da giovane ha l’aspetto brillante di un rubino, denso e vivido, sprigiona un bouquet di profumi concentrati con un’apertura balsamica che precede frutti di bosco e fiori freschi, ma evolve nel bicchiere liberando anche sentori di cioccolato, mirto, spezie, grafite. Col tempo il colore vira verso tonalità di rosso granato ma non perde spessore ed al naso vira verso arancia e ciliegia candite, frutta macerata e sensazioni carnacee e salmastre. Al palato dimostra uno sviluppo elegante e prodigioso: come una matassa che rotolando si dispiega e conquista tutta la bocca con la vibrazione di tannini setosi. Ha un lunghissimo finale minerale che in alcune annate può ricordare tartufo o selvaggina. Ricordiamo la grande annata 2015 che ha portato il Sassicaia sul tetto del mondo: Miglior Vino al Mondo secondo Wine Spectator.

3. Masseto

Bolgheri è stato definito un “Eldorado del vino”, patria della sperimentazione, che qualche anno più avanti portò alla luce un’altra bottiglia memorabile: il Masseto, merlot in purezza, che con l’annata 1988 in una degustazione alla cieca sbaragliò i grandi merlot francesi e californiani. Il Masseto scaturisce da una vigna particolarissima di Tenuta dell’Ornellaia, l’azienda fondata da Lodovico Antinori, che con uno spirito caratteriale tutto suo volle discostarsi dall’impresa di famiglia. Tenuta dell’Ornellaia puntò fin da subito esclusivamente a produrre vini di fascia alta, valendosi di collaborazioni internazionali di altissimo livello. La vigna del Masseto è particolarissima: ha un terreno che si distingue rispetto al resto di Bolgheri, in quanto è un unico blocco di argilla del Pliocene e Pleistocene che può ricordare il suolo di Pomerol. Qui le uve di merlot acquisiscono una ricchezza polifenolica straordinaria che nel vino si declina in grande profondità. Nel calice il Masseto appare impenetrabile alla vista e inebria l’olfatto con un ventaglio interminabile di profumi che sfilano uno di seguito all’altro senza smorzare l’intensità. Tutto in lui è esaltato al massimo: la fruttosità del merlot, la fragranza della macchia mediterranea, la profusione di spezie e l’odore della torrefazione fino a mostrare tratti minerali e ferrosi. Al palato è voluminoso e imponente, ha tannini integrati e vellutati che si legano a riverberi balsamici che restano a lungo in bocca. Oggi il Masseto spunta prezzi stratosferici ed è una dei pochi vini italiani quotati all’indice borsistico britannico dei grandi vini del mondo. 

4. Tignanello. La rivoluzione dei Supertuscan

Altro progetto rivoluzionario fu quello che in casa Antinori, nel territorio del Chianti Classico, determinò l’origine del Tignanello, che rappresenta un modello di eccellenza ed eleganza. Quello del Tignanello è un vigneto bellissimo nella zona di San Casciano, ricco di pietre bianche poste alla base delle piante per riflettere il calore e la luce del sole sui grappoli. Nel 1970 il Tignanello esordisce con la denominazione di Chianti Classico Riserva, con il classico uvaggio in voga al tempo, che prevedeva, oltre al sangiovese e al colorino, la presenza di uve a bacca bianca (trebbiano e malvasia). Ma già l’anno successivo il vino si ribella alla tradizione per seguire un modello diverso: si adottano vitigni internazionali nell’uvaggio col sangiovese, comportando l’uscita dalla denominazione del Chianti Classico per divenire vino da tavola; ma in realtà siamo di fronte ad uno dei primi Supertuscan, quei vini di carattere ed eleganza che puntano all’eccellenza. A fare il Tignanello insieme a Piero Antinori c’era Giacomo Tachis, lo stesso enologo del Sassicaia. Per la prima volta il sangiovese abbandona la botte grande e viene elevato in barrique francesi. Ogni momento della produzione di questo grande vino è svolto con dedizione meticolosa: è moderna la cura del vigneto, realizzato con grande intensità d’impianto e basse rese per pianta, così da massimizzare la quantità di sostanze estrattive nel mosto ed altrettanto precise ed accurate sono tutte le attività di vinificazione svolte con l’obiettivo dell’eccellenza. Un vino elegante alla vista per il suo colore di tonalità rubino acceso, ricco di profumi intensi e penetranti, rotondo ed avvolgente al gusto: un vino sempre sensazionale!

5. Pergole Torte

E come non ricordare il primo vino realizzato con sole uve Sangiovese in tutto il Chianti Classico. Siamo nel 1977 quando nasce la prima etichetta di Pergole Torte, dalla volontà di Sergio Manetti che incontra sulla sua strada un vero artista dell’assaggio e grande conoscitore del Sangiovese, il mitico “Bicchierino” alias Giulio Gambelli. Vino precursore di tutte le forme di marketing arrivate una ventina di anni più tardi e legate alle storie, serie e meno serie, sul territorio, sui vitigni autoctoni, sui cru e via dicendo. Il Sangiovese chiantigiano nella sua versione più autentica e raffinata. 

6. Grattamacco

Nello stesso anno, Piermario Meletti Cavallari si trasferisce da Bergamo sulle colline di Bolgheri, realizzando nel 1982 il Grattamacco Rosso, inizialmente un blend tra Cabernet e Sangiovese. E ancora oggi è uno dei pochi a preservare il Sangiovese in terra bolgherese.

7. Cepparello

“Il mio obiettivo era di raggiungere un miglioramento qualitativo della produzione e i primi passi in tal senso furono una ricerca di selezione clonale sul Sangiovese e la sua vinificazione in purezza per comprendere appieno le potenzialità”, questo diceva nel 1980 Paolo de Marchi quando realizzò il Cepparello, che prende il nome da un piccolo ruscello che scorre sotto le vigne. 

8. Solaia

Quando, poi, si parla di Supertuscan uno dei primi nomi che ti viene in mente è indubbiamente il Solaia. Nato nel 1978. Un vino che è entrato quasi di diritto tra i più celebrati rossi toscani e che continua a ricordarci il ruolo, oggi volutamente dimenticato, che ha avuto il Cabernet nella prima fase di rinascita dell’enologia regionale. 

9. I Sodi di San Niccolò

Nel 1979 i contadini Chiantigiani, per distinguere i vigneti realizzati su terreni con estrema pendenza e dura consistenza, coniarono il nome “I Sodi”, che ha dato poi il nome al vino più rappresentativo del Castellare. Tra i primi Superstuscan a puntare, in controtendenza rispetto alle mode del momento, sul sangiovese e, in genere, sui vitigni autoctoni. 

I Sodi di San Niccolò ha mantenuto negli anni la sua peculiarità, carattere arcigno, poco ammiccante, più incline a suscitare rispetto che emozione pura.

10. Flaccianello della Pieve

E poi il Flaccianello della Pieve di Fontodi, un vino energico, intenso, saporito, longevo, di carattere, che nasce in un territorio eccezionale. Il Flaccianello della Pieve, un sangiovese in purezza prodotto dalle migliori uve aziendali, racchiude nel bicchiere il connubio perfetto fra la vita, il lavoro e la natura. Prodotto nel cuore del Chianti Classico, più precisamente nella vallata che si apre a sud di Panzano, la cosiddetta "Conca D'oro", un anfiteatro naturale fra i 350 e i 450 metri sul livello del mare, particolarmente vocato alla coltura della vite ed alla produzione di grandi vini, il Flaccianello rappresenta la vivacità di una festa paesana, l’accoglienza e la convivialità della gente del Chianti, l’esuberanza di un personaggio come il macellaio poeta Dario Cecchini, verace ma non volgare. 

11. Fontalloro, Félsina

E il Fontalloro di Félsina dotato di struttura, di nerbo e vivacità, che matura con lentezza e difficilmente da segni di declino.

12. Messorio, Le Macchiole

E, ancora, il Messorio di Le Macchiole, in pochi anni divenuto uno dei Merlot di punta a livello internazionale.

13. Caberlot, Podere Carnasciale

Senza dimenticare il Caberlot del Podere Carnasciale, un vitigno nato da una maturazione clonale o forse da un incrocio, che ha trovato la sua massima espressione nel Valdarno. Prodotto dal 1988 solo in bottiglie Magnum, per simboleggiarne la regalità.

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